Gianni De MichelisIl risultato del referendum sulla fecondazione assistita avrà effetti non secondari sull’evoluzione della situazione politica italiana. Non si tratta, almeno per quello che mi riguarda, di pentirsi della scelta che abbiamo sostenuto, noi promotori e sostenitori del referendum; ma al tempo stesso sarebbe imperdonabile rifugiarsi nella facile posizione di attribuire la nostra sconfitta all’insufficiente consapevolezza degli elettori o a una sorta di eccesso di interferenza da parte delle gerarchie della Chiesa. D’altronde, abbiamo sostenuto, per tempo e in modo aperto durante la campagna referendaria, che la posizione della Chiesa ci sembrava assolutamente legittima, compreso l’appello all’astensione. Il problema è stato l’elevata percentuale degli italiani che hanno deciso di non partecipare al voto: non a caso, in occasione della chiusura della campagna elettorale, avevamo prefigurato che una percentuale di partecipazione superiore al 45% sarebbe stato un chiaro successo anche in mancanza del quorum, ma che, per converso, un tasso di astensione superiore al 60% avrebbe dovuto essere considerato una vera e propria sconfitta per i sostenitori della necessità di modificare la legge 40. Con un tasso di astensione pari quasi al 75% il problema, sia per chi è stato sconfitto sia per chi ha visto prevalere la propria posizione, è quello di cercare di comprendere, con onestà intellettuale e politica, il significato di tale segnale inequivocabile.
Una lezione in questo senso ci viene dal Cardinal Ruini il quale, pur esprimendo soddisfazione, ha nel contempo gettato acqua sul fuoco dei bollori di chi cominciava a pensare che il voto referendario potesse innescare un vero e proprio clima da crociata. Un atteggiamento simile dev’essere raccomandato a noi laici: la prima lezione da trarne riguarda il ricorso allo strumento del referendum, soprattutto al fine di combattere battaglie di valori. E’ probabile che dovremo concludere, e un suggerimento in questo senso dobbiamo avanzare anche nei confronti degli amici radicali, che si tratta di uno strumento scontato, che rischia sempre più di trasformarsi in un boomerang. Non basta il ricordo delle squillanti vittorie in materia di aborto e di divorzio per giungere alla facile conclusione che lo schema è ripetibile a piacimento. E avremmo dovuto riflettere, tra l’altro, sul fatto che in quel caso noi laici ci battemmo contro un referendum volto ad abrogare una legge che in Parlamento aveva trovato una maggioranza. Inoltre, abbiamo probabilmente peccato di arroganza intellettuale, ritenendo che questioni complesse, anche se importanti, come quella del diritto alla libertà di ricerca o delicate ma riguardanti solo una parte minoritaria delle coppie e delle famiglie, potessero essere sentite come fondamentali dalla larga maggioranza della popolazione. Da ultimo, non vi è il minimo dubbio che ha avuto un ruolo negativo, rispetto alle esperienze del passato, la modificazione del panorama politico italiano provocata da Mani Pulite e dalla seconda Repubblica, che ha avuto come principale conseguenza la pratica cancellazione dalla scena dell’intero schieramento laico-riformista. Nel 1992 le forze politiche che esprimevano tale area esistevano, bene organizzate, sull’intero territorio nazionale, e raccoglievano un quarto dell’intero elettorato italiano; oggi, e lo sappiamo bene noi socialisti autonomisti e riformisti impegnati da anni in una dura e difficilissima battaglia per affermare il nostro diritto all’esistenza, ciò che resta di quel 25% del 1992 raggiunge a stento il 5% e, a parte il dato quantitativo, non è ovviamente più in grado di svolgere quel ruolo di traino e di mobilitazione che ci caratterizzò negli anni ’70 e ’80. E, come l’onorevole Fassino ha imparato sulla sua pelle, la costruzione di un soggetto laico-riformista non può avvenire in laboratorio e, meno che mai, attorno a leadership culturalmente e politicamente inadeguate a tale ruolo. Queste considerazioni non devono però farci giungere alla conclusione che l’Italia dell’inizio del XXI secolo è meno disponibile a guardare al futuro in modo aperto ed innovativo, ma che non solo in materia economica e sociale ma anche sotto il profilo dei valori e della tutela dei diritti, la premessa indispensabile è quella della correzione dei guasti che gli anni ’90 hanno comportato, anche e soprattutto, ovviamente, sotto il punto di vista della articolazione del sistema politico e delle modalità del suo funzionamento a partire dal sistema elettorale. Gli amici radicali dovrebbero riflettere sulla contraddizione derivante dal battersi per l’uso di un sistema di democrazia diretta come quello referendario e contemporaneamente per un sistema elettorale, quello maggioritario, il quale, in una realtà come quella italiana, inevitabilmente comporta un minor tasso di partecipazione e di mobilitazione.


Articolo tratto dal quotidiano "Libero" del 15 giugno 2005
Lascia il tuo commento

Nessun commento presente in archivio