Giuseppe Rippa“Considero i referendum come gli avvenimenti più democratici mai verificatisi in Italia; quelli che hanno dato veramente un’immagine di questo Paese che non si ha mai attraverso i risultati delle elezioni politiche o amministrative. Da queste si ha un Paese in cui nulla si muove, tutto è uguale, si è contenti di come vanno le cose. Dai referendum – anche quelli persi – si ha invece l’immagine che c’è in questo popolo l’ansia di mutare qualcosa. I referendum sono salutari per la nostra democrazia. Quello sul divorzio ha sciolto tanti nodi della vita politica italiana. Che poi non abbiano saputo approfittarne coloro che dovevano, è altro discorso… Quanto ai radicali so soltanto che l’unica cosa che si muove, proprio nel senso della vita contro la morte, in questo Paese, è il partito radicale… I referendum sono quanto di più democratico è possibile in questo Paese…”. Così Leonardo Sciascia interveniva, nel maggio del 1981, prima del voto referendario di quel 17 maggio.
L’occasione era fornita dal libretto Referendum: quali, come, perché che Quaderni Radicali realizzò per quella tornata referendaria che prevedeva l’abrogazione dell’ergastolo, delle leggi speciali sull’ordine pubblico, sui tribunali militari… Eppure il referendum resta uno strumento che non piace alla classe politica. Ancora oggi, con la fantomatica seconda Repubblica, con un sistema di bipolarismo proprio “all’italiana” e con il terremoto degli anni Novanta, una antica diffidenza sistematica accompagna il giudizio nei confronti di questo strumento di democrazia diretta, che nel gioco di pesi e contrappesi della Costituzione dovrebbe assicurare un sistema parlamentare corretto, proprio per evitare che tutto il potere vada ai partiti. Ma i partiti sono sfumati, viene affermato. Si tratta di una valutazione controversa. Con forme diverse, con un gioco d’élite sempre circoscritto ai pochi attori di sempre e con il tradizionale meccanismo della cooptazione (casomai esercitato con modalità diverse, con un criterio di elargizione neo-medioevale, ma sempre più attuale), resta il “vizio” di emarginare il referendum (un compito fondamentale viene svolto in questo senso dalla Corte Costituzionale, nella sua tradizionale funzione di togliere le castagne dal fuoco ai poteri del momento, con sentenze a dir poco inquietanti). Si tenta di incanalarlo in modo che non turbi gli equilibri, che non tocchi le decisioni ritenute fondamentali nello schema delle dialettiche del sistema dei “mandarini” delle nostre istituzioni. Eppure ancora una volta, e questa volta in modo più intenso, i referendum si presentano come una occasione determinante per mutare equilibri di potere onnicomprensivi e pervasivi anche se politicamente asfittici e ambigui. Il voto regionale dello scorso 3 e 4 aprile sembra aver “terremotato” il quadro politico, con il centrodestra alle corde dopo la debacle elettorale. Ma proprio la preoccupazione dei vincitori dell’Unione, sembra chiarire quanto precarie siano le linee di accordo in una coalizione dove tra politica estera, politica economica – per fare solo due esempi – le convergenze sono quasi nulle e dove si “sta insieme” solo perché c’è Berlusconi contro cui stare. Ora che il premier è in crisi, la crisi stessa si riflette anche sull’opposizione che teme di vincere, ma di “resistere” insieme... per poco. E allora ecco le voci di elezioni anticipate, messe in campo dalla maggioranza sconfitta alle regionali, più per spaventare Prodi e compagni che per dare una risposta politica ai molti problemi che l’attraversano. Una situazione a dir poco paradossale... I quattro referendum si voteranno il 12 di giugno. Il messaggio è chiaro e sottoscritto da tutti i partiti, le coalizioni e i sottogruppi del nostro bipolarismo debole. La campagna referendaria non viene fatta decollare e le posizioni di tutti sono pressoché comuni. I referendum su procreazione assistita e ricerca scientifica devono essere accantonati, tenuti fuori dal dibattito politico. Si può sperare che gli appelli di quelle parti politiche che, con i radicali, hanno raccolto le firme, imprimano un ritmo diverso a questa intenzione? Abbiamo qualche dubbio in proposito. Scriveva su «il Riformista» del 7 aprile Claudia Mancina riferendosi all’Unione: “…Se si è convinti della propria forza e del rapporto positivo riconquistato con gli elettori, non c’è motivo di temere gli effetti di una divaricazione interna che, su temi come quelli bioetici, è del tutto legittima. Chi ha promosso il referendum deve onorare il proprio impegno conducendo una campagna limpida e convinta, ancorché rispettosa delle diverse opinioni. La forza e la credibilità di uno schieramento composito come il centrosinistra si misura dalla sua unità, ma anche dalla sua capacità di evitare ipocrisie e veti reciproci”. Non si comprende se si tratta di una certezza, di una speranza o di un timore che le cose non stiano così. Intanto, però, i fatti dicono altro. Se è vero che il centrodestra appare completamente prostrato alle posizioni del Cardinal Ruini, presidente della Cei (nonostante il poco brillante risultato alle elezioni regionali del Lazio, dove il candidato sponsorizzato, Storace, è finito ko), il centrosinistra si muove decisamente con ambiguità, tentato dalla voglia di liberarsi da un “impiccio” poco gradito a molte sue componenti. Non si tratta di veti reciproci, o di diversità di visioni su temi particolari. Siamo di fronte alla frattura di quello che dovrebbe essere l’impianto base di un’alleanza: la differenza tra un modello clericale e un modello liberale. “È chiaro non si tratta in alcun modo – ha spiegato nella prolusione al Consiglio Permanente dei vescovi italiani, il cardinale Ruini, presidente della Cei, prima della morte di Papa Giovanni Paolo II e dell’inizio del Conclave – di una scelta di disimpegno (alludendo alla scelta dell’astensione ndr), ma di opporsi nella maniera più forte ed efficace ai contenuti dei referendum e alla stessa applicazione dello strumento referendario in materie di tale complessità. In concreto è necessaria la più grande compattezza nell’aderire all’indicazione del Comitato, per non favorire, sia pure involontariamente, il disegno referendario”. Ai membri del Consiglio Permanente, il cardinale ha illustrato anche i le intenzioni del Comitato “Scienza e Vita”, nato, ha detto, “per impedire il grave peggioramento della legge sulla procreazione assistita, che avrebbe luogo se i referendum avessero esito positivo”. “Il Comitato – sono ancora parole del presidente della Cei – dà voce alla grandissima e altamente significativa unità che i molteplici organismi cattolici hanno saputo raggiungere su questo tema tanto importante e delicato, ma esprime anche e anzitutto una posizione razionalmente fondata che va nettamente al di là delle appartenenze religiose e partitiche riunendo molte personalità del mondo scientifico, culturale, professionale e politico”. Dunque, il partito che non possiamo non definire clericale ha iniziato la sua battaglia. Lo fa a difesa di una legge arcaica e anacronistica. Per comprendere i divieti assurdi che sono stati frapposti in materia di procreazione assistita dobbiamo rifarci a quel clima ipocrita e neo-bigotto che sembra ritornato in auge in tempi recenti. Quella che doveva essere una legge tesa a fornire una norma chiara, in grado di soddisfare una domanda diffusa (si parla di molti milioni) di donne e di uomini che intendono diventare genitori anche ricorrendo a tecniche che la scienza ha reso possibili (fecondazione medicalmente assistita), si è trasformata in una lunga teoria di impedimenti. In molti casi privi di senso logico, incomprensibili, ridicoli.< La salute riproduttiva dell’essere umano, proprio grazie alla ricerca biomedica, può essere in grado di rispondere ad una richiesta, un desiderio di procreazione. Si tratta di fornire una legge, degli efficaci regolamenti affinché questa speranza possa essere – nella tutela dei diritti di tutti, ovviamente correttamente definiti – soddisfatta. Ecco invece tornare a galla un revanscismo di stampo neo-guelfo, nutrito di pelosa sottocultura dei vizi privati e delle pubbliche virtù, in cui, con una raffica di “divieti” si mira ad una oggettiva limitazione delle libertà. Il riflesso è identico e parallelo alle vicende delle cellule staminali, della libertà di ricerca, di tutte le questioni etiche che si tenta di riproporre nella logica di un neo-clericalismo mascherato da presunti valori. Al comitato del Cardinale Ruini (Scienza e Vita), è affidato il compito di produrre l’offensiva principale per “anestetizzare” il voto referendario, attraverso la scelta dell’astensione. Quella dell’astensione è ovviamente una scelta legittima in democrazia. Una opzione elettorale alla quale è giusto ricorrere per dare vita ad una espressione di volontà diversa da quella che è offerta in ciascuna singola scadenza elettorale. Per cui, se ad una elezione politica non ci si sente rappresentati dalle proposte in campo, è più che legittimo, con il non voto, manifestare il proprio dissenso. Parziale e non sempre efficace scelta, ma indubbiamente indiscutibile sotto il profilo della partecipazione e della manifestazione di volontà. Anche quella per il referendum si presenta come una scelta che lascia al “non voto” una ragione politicamente comprensibile. Ma appunto “politicamente”. È un criterio dunque decisamente in contrasto con le “ragioni” di fede che vengono poste alla base della loro “discesa in campo”. Siamo di fronte ad un tatticismo politico (asteniamoci, così facciamo fallire dei referendum che vorrebbero modificare una legge, i cui contenuti sono contrari alla “dottrina cattolica”, ma che comunque è meglio salvaguardare per opportunità strategiche). Dunque è un terreno meramente “politicistico”, un “opportunismo” elettorale, che come tale va preso. Le questioni di fede hanno un valore relativo. Il tema, così definito, lascia spazio ad un aspetto che tutti temono e che è la vera sostanza politica di questo referendum; che per i suoi contenuti, per quello che rappresenta contiene in sé un’esplosiva forza dirompente. Il nodo è questo: se il quorum si raggiunge, se i Sì prevalgono, il quadro politico ne viene “terremotato”. Non una della attuali alleanze, delle attuali, fragili, confuse coalizioni, resisterà alla forza d’urto dell’onda referendaria. Scriveva qualche giorno fa su «La Stampa» Luigi la Spina: “…Una regola fondamentale della politica italiana prevede che i referendum riescano sempre a preparare il futuro degli schieramenti partitici nazionali”. Si prenda la Margherita. Al suo interno sono già presenti i segni del dilaniamento (non si tratta solo della cosiddetta “solitudine” di Prodi, il suo tormento nel rapporto con il “confessore” Ruini, o gli equilibri nella post-sinistra-democristana che si verrebbero a definire dopo la consultazione). È la stessa neo-federazione dell’Unione che entrerebbe in crisi, prima ancora di iniziare il suo difficile viaggio verso Palazzo Chigi. I rapporti con i Ds e i rapporti all’interno dei Ds sono in discussione. E questo è solo l’inizio. Insomma tutti i vecchi equilibri ne verrebbero sconvolti e con essi gli “accordi” futuri di “voto politico”. Come detto, anche la cosiddetta Casa delle Libertà è tutt’altro che immune dall’effetto terremoto dei referendum. Berlusconi occhieggia a Ruini, e con lui tutta la sarabanda polista. Addio presunto profilo pseudo-liberale! Ecco perché, finché si può, i referendum devono essere “espulsi” dal dibattito politico. Si rischia l’accantonamento di una fase politica che, sebbene non esaltante, è servita e serve a molti. Il destino dell’embrione non c’entra nulla (e se mai così fosse, non c’entrano le presunti questioni di principio e di fede, che come visto sono state bellamente accantonate per motivi di mero opportunismo). Siamo di fronte all’ennesima prova che a confrontarsi in un’occasione referendaria sono, da una parte una politica di conservazione e di restaurazione che da cinquant’anni occupa la scena, e dall’altra una prospettiva di cambiamento che cerca, sulla via della modernità liberale, uno sbocco alla crisi politica che attanaglia il Paese. Il clima come si vede è tutt’altro che positivo. Tutti i segni sembrano convergere verso una rinascita di atteggiamenti palesemente votati ad un settarismo nutrito di divieti. Una logica che trova sul fronte della ricerca genetica la medesima odiosa resistenza. Una tale impostazione impedisce al nostro Paese di competere internazionalmente sul fronte della ricerca scientifica. Ci troveremmo nella incredibile situazione di tagliarci da soli fuori dalle traiettorie di sviluppo che su questo terreno si lega alla ricerca e perché no alla speranza, togliendo a milioni di cittadini italiani la possibile prospettiva (che non è ovviamente certezza, ma neppure mera illusione) di cura e guarigione in un futuro che appare sempre più prossimo. Guai a mollare sul principio della laicità dello Stato. Garantire il rispetto dell’art. 33 della Costituzione secondo il quale “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” è assolutamente un atto politico irrinunciabile. Soltanto dai referendum che, come questi, combattono la linea del potere “tecnico” delle istituzioni senza politica, vi è una via d’uscita democratica alla crisi politica che viviamo. Il Paese può dire “se ha capito la Storia in cui vive, se ha in sé la sapienza che non hanno i suoi dirigenti”. Negli anni, i referendum – quelli radicali in primo luogo – hanno tentato di dare la parola alla gente e la storia ha voluto che questa parola sia giunta a questo punto: quando immediatamente si delineava una parola opposta, quando i termini dell’alternativa diventavano chiari e anzi un’alternativa che prima non esisteva appariva improvvisamente formalizzata. È stato comunque un buon punto. Come diceva Sciascia, una verità è innanzi a noi: sono i referendum, non le elezioni politiche a decidere la politica, a segnare nell’evento quotidiano la domanda e la scelta decisiva. Tutto quello che si deve fare è cercare di rendere coscienti i cittadini italiani di farsi portatori, in modo risolutivo, di questo messaggio.


Editoriale tratto dai "Quaderni Radicali" n.90 marzo/aprile 2005
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