Vittorio LussanaLa vita umana è frutto di scelte basate sulla conoscenza. Ciò che ci rende delle persone migliori è la maturazione della consapevolezza, l'acquisizione della memoria storica, la formazione di un nostro senso critico. Non c'è nulla di più potente della cultura per riuscire ad abbattere quelle barriere che arginano lo sviluppo di un Paese, per favorire la crescita di una collettività, per limitare le culture settarie e malavitose. Non è nemmeno pensabile di poter prescindere dalla cultura: essa è l'elemento fondamentale per riuscire a garantire un futuro alle giovani generazioni. La formazione scolastica è il punto d'origine di questo delicatissimo processo di crescita culturale. Eppure, dal 1990 a oggi, gli investimenti nell'educazione sono scesi, in Italia, dal 5,4% al 4,5%. Quasi la metà dei nostri istituti scolastici, inoltre, proviene da investimenti edilizi decisi prima del 1974. E il processo pedagogico di 'nutrizione culturale' avviene, ancora oggi, attraverso un insegnante che spiega mentre gli alunni lo ascoltano. In tal guisa, se chi insegna è una 'bestia', da quell'aula scolastica non potranno che uscire una trentina di nuove 'bestie'. Solo il 10% dei docenti dichiara di avere competenze digitali, mentre un istituto su due non ha alcun un collegamento a internet e l'informatica ancora non fa parte dei programmi di licei e scuole secondarie, come invece avviene in tutto il resto d'Europa. Oltre a ciò, quel che non si è minimamente sviluppato, in un Paese da sempre affetto da pigrizie mentali e suggestioni ideologiche, è un processo d'integrazione tra i tre principali 'attori' della cultura: la scuola, le università e il mondo del lavoro. Per innescare una dinamica evolutiva maggiormente virtuosa occorre agire verso tre direzioni, strettamente connesse tra loro: a) sviluppare nuove e più moderne metodologie d'insegnamento, che tengano conto dei mutamenti generazionali; b) fornire quelle tecnologie digitali a supporto dell'innovazione basate su 'sistemi aperti', che cioè consentano l'interagibilità totale delle fonti di apprendimento, secondo le 'linee-guida' stabilite dall'Unione europea; c) convincersi, in sede europea, della necessità di una concezione 'federale' di accantonamento delle risorse destinate a questo genere di investimenti, al fine di non 'scaricare' il peso di un simile impegno sui singoli Stati nazionali, i quali da sempre si dimostrano esperti soprattutto nella creazione di clientelismi, costi aggiuntivi e innumerevoli 'rivoli' di spreco. Tutto ciò potrebbe strutturalmente favorire un processo culturale di 'comunione' tra le diverse realtà educative europee. Ma una simile 'architettura' viene profondamente osteggiata proprio all'interno dei singoli Stati. Soprattutto in Italia, dove non si riesce nemmeno a mettersi d'accordo sulle parole 'comunione' e 'comunità', giudicate, persino dagli ambienti liberali più 'aperti' e sinceramente democratici, delle vere e proprie 'chiavi di volta' verso un socialismo burocratizzato, strategicamente alleato con il neo-confessionalismo cattolico. Ogni linearità filologica, qui da noi rimane soggetta a speculazioni puramente formali e 'nominaliste', come se servisse sempre la parola 'giusta' per riuscire per lo meno a dare il via a un processo di cambiamento qualsiasi. Il vero problema italiano, insomma, rimane una mentalità che tende a 'sganciare' la libertà del singolo individuo da ogni vincolo di interesse generale o collettivo. La vecchia 'riforma-Gentile' del 1923 si basava su un'idea di 'Stato etico' profondamente selettiva ed 'elitaria'. Ma ciò ha spesso comportato, nel corso dei decenni, un'eccellente possibilità d'innesto di innovativi princìpi pedagogici ed educativi basati sullo sviluppo di una maggior capacità auto-organizzativa tra studenti e singoli alunni, sostituendo il vecchio corporativismo fascista con un'ingegnosa cultura solidaristica, la quale, in molti casi, raggiungeva l'obiettivo dell'apprendimento individuale. Il vero problema italiano non è mai stato quello di negare la 'libertà intellettuale' al singolo studioso o ricercatore, ma di rendere tale principio complementare con una concezione più generale di educazione civica e solidaristica tra i cittadini. Che invece è proprio ciò che subisce 'frenate' potentissime, perché qui da noi deve continuare a dominare quella logica della 'furbizia' che ha fatto 'strame' di ogni obiettivo meritocratico. In Italia non avanzano i migliori, ma i più ricchi e i più 'furbi', in ogni settore e comparto, a cominciare da quello universitario. Tutto ciò ha generato il 'caos' al quale stiamo assistendo, in cui vi sono plurilaureati totalmente privi di una qualsiasi base di sintassi, incapaci di affrontare dignitosamente persino un tema in classe del vecchio ciclo scolastico ginnasiale. L'Italia è vittima di un sistema culturale concepito come mero 'bagaglio formale' e non in quanto patrimonio di princìpi e di valori da applicare ogni giorno. Un modello educativo che concepisce il diploma o la laurea come semplici punti di arrivo: 'pezzi di carta' da incorniciare e appendere al muro. Una mentalità che ci ha condotti, dritti di filato, verso una società generalista e superficiale, totalmente imperniata sull'immagine esteriore, in cui ogni problema si cronicizza proprio a causa di quelle 'contaminazioni formali' più volte paventate proprio da Giovanni Gentile. Formalismi retorici ed eccessi di 'zelo', che finiscono col nascondere ogni questione sotto 'al tappeto', lasciando ogni cosa sostanzialmente inaffrontata. Era forse questa l'Italia a cui pensavano Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi? Noi crediamo proprio di no.

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Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista mensile 'Periodico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)
(editoriale tratto dal n. 32 della rivista mensile 'Periodico italiano magazine' - ottobre 2017)


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Carlo Cadorna - Frascati - Mail - lunedi 16 ottobre 2017 17.32
Bell'articolo! La cosa più grave è che con gli stessi criteri si seleziona la classe dirigente: nel '57 una commissione parlamentare italiana andò in Cina e fu ricevuta da Ciu en Lai. G. Paietta gli chiese come facevano a riconoscere i generali dal momento che non portavano i gradi. Risposta:" Da noi i capi li riconoscono tutti". Da noi succede soltanto nel sindacato...e non sempre.
Roberto - Roma - Mail - martedi 10 ottobre 2017 6.58
Questo è poco ma è sicuro.....


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