Alessandro LozziSoddisfazione, ma anche scetticismo, dominano, in questi giorni, nelle considerazioni di numerosi osservatori dopo la fiducia ottenuta dal nuovo governo palestinese formato dal primo ministro Abu Ala. Per il partito di maggioranza dell’Anp, Al Fatah, il ‘braccio di ferro’ avvenuto nelle scorse settimane tra il Consiglio legislativo palestinese ed il neo-primo ministro viene definito, forse un po’ enfaticamente, democratico e, dunque, positivo, poiché alla fine si è giunti alla nascita di un esecutivo formato in maggioranza da tecnici e non da esponenti politici o parlamentari. In effetti, c’è da dire che, per la prima volta, lo Stato della Palestina sembra dare l’impressione di aver insediato un gabinetto composto da esperti veri, che potranno dare un contributo reale nell’amministrazione dei territori.
L’esclusione dei membri del Clp dall'esecutivo, infatti, separa con precisione i compiti dei legislatori da quelli dei ministri e dei principali organi esecutivi, limitando i singoli deputati eletti ad un ruolo di mero controllo delle attività del governo. Tuttavia, non tutti si lasciano convincere dall’ottimismo imperante in questa fase, anche perché l’ingresso di nuovi personaggi politici nel governo non garantisce che questo poi si dimostrerà più indipendente da Al-Fatah. Il presidente Abu Mazen ha indubbiamente svolto un ruolo da protagonista, in questa partita, soprattutto in relazione alla scelta dei nuovi ministri, facoltà che lo statuto dell'Anp, invece, assegnerebbe al premier. E ciò, però, ha rappresentato, da un punto di vista strettamente metodologico, la riproposizione dell’anomala consuetudine, adottata in passato da Yasser Arafat, allorquando il 'rais' si preoccupava di formare una squadra di governo in linea con le proprie posizioni, scavalcando il primo ministro incaricato. Gli integralisti islamici di Hamas, per parte loro, mostrano una certa indifferenza nei confronti del nuovo governo, ritenendolo rispondente soprattutto agli interessi esclusivi degli Stati Uniti nell’area mediorientale. Peraltro, sul versante israeliano, il primo ministro Sharon sembra determinato a voler mantenere le proprie buone intenzioni di attuazione del suo piano di ritiro da Gaza, rinunciando di fatto alla materializzazione politica della ‘Grande Israele’. Alla base della svolta del leader israeliano sembra esservi la convinzione che la questione palestinese non possa essere affrontata solo in termini di repressione militare e che il mantenimento dell’occupazione sui territori conquistati nella ‘guerra dei 6 giorni’ sia insostenibile in termini di sicurezza. Sharon ha dunque concepito il ritiro israeliano, almeno nella fase iniziale, come un ripiegamento militare unilaterale, al fine di evitare che la presenza di un numero troppo alto di abitanti palestinesi dei territori occupati possa mettere in crisi il carattere fondamentalmente ebraico di Israele. E’ certamente assai improbabile che, dopo quattro anni di violenza e di sangue, si torni, come se nulla fosse, al punto in cui il negoziato era stato interrotto a Camp David e Taba, nel 2000 – 2001. Ma l’accordo di Sharm El Sheikh sembra per lo meno imperniato su una serie di consonanze strategiche generali assai preziose, sia per Tel Aviv, sia per il nuovo governo di Ramallah. La comunità internazionale, infatti, in questa fase si è particolarmente impegnata a far intraprendere la via della pace ad israeliani e palestinesi anche per concentrare meglio la propria attenzione sulla crisi tra Siria e Libano. Le pressioni internazionali per il ritiro delle truppe siriane dai territori del Libano meridionale, occupati nel 1989, hanno infatti accelerato la crisi scoppiata dopo l'omicidio dell'ex premier libanese Hariri. E la comunità internazionale, che nel frattempo ha predisposto una bozza di risoluzione franco-americana in cui si richiede espressamente a Damasco il ritiro immediato delle truppe di occupazione entro la fine del mese di marzo, mediante comunicazione ufficiale inviata in questi giorni dal Segretario Generale dell’Onu, Kofi Annan ha chiesto ufficialmente alla Siria il ritiro militare dai territori occupati entro il mese di aprile. Questo, al momento, è il nuovo palcoscenico della infinita crisi mediorientale.
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