Vittorio LussanaA margine della presentazione del libro di Luigi Fenizi, intitolato 'Deposito bagagli', edito da Scienze e Lettere, tenutasi lo scorso novembre presso la Biblioteca del Senato in Roma, abbiamo voluto scambiare alcune opinioni con l'autore di un volume importante, che giunge a coronamento di un duro percorso di vita. Per lunghi decenni, Fenizi ha svolto il ruolo di importante funzionario del Senato della Repubblica, vivendo molto da vicino alcuni 'passaggi', politici e sociali, fondamentali per il nostro Paese: quelli del primo centrosinistra, della contestazione studentesca e degli 'anni di piombo'. Ma soprattutto, si tratta di un uomo che ha dovuto combattere una serie di avversità totalmente inaspettate, che lo hanno posto di fronte a una situazione difficile e a una malattia estremamente complessa. Una prova assurda e incomprensibile, che alla fine lo ha rafforzato, rendendolo un pensatore e uno scrittore raffinato. Luigi Fenizi, oggi, è un uomo 'nuovo', che ha saputo dimostrare come sia necessario affrontare la nostra vita con temperamento e grandissima forza morale.    

Luigi Fenizi, tu sei stato per 35 anni un importante funzionario di un ramo del nostro Parlamento, poi ti è successa una cosa che ti ha costretto a ingaggiare una dura battaglia per tornare a una seconda vita: non credi che quello che siamo oggi sia una persona completamente diversa da quella che eravamo un tempo?
"Sicuramente sì. E la 'frattura', per quanto mi riguarda, è stata così radicale che certamente, oggi, siamo in un'altra esistenza, non solo fattuale, ma anche psicologica. Il 'punto-chiave' della mia vicenda si può riassumere in questi termini: prendere atto di questa frattura e continuare a vivere, non soltanto in termini fattuali, ma anche interiori e psicologici".

Chiariamo che quanto ti è capitato è stata una lunga malattia invalidante molto grave: è così?
"Sì, una malattia invalidante molto grave, che mi aveva ridotto nelle condizioni di un tetraplegico. Per un paio d'anni ho vissuto praticamente immobile sul letto, bisognoso di tutto. Ed è chiaro che mi sono sentito sprofondare in una condizione angosciante, disperante, terrorizzante, perché in quei momenti non vedi vie di uscita".

Tu, allora, hai esorcizzato questo 'demone' che ti era saltato addosso scrivendo?
"Sicuramente: la chiave di volta, oltre agli affetti personali, è stata la scrittura, che ho percepito in una maniera diversa rispetto alla mia 'prima vita', dato che scrivevo anche allora. Ma in quel momento, come ho detto anche durante la presentazione del mio libro, ho ritrovato la mia 'consistenza'. A un certo punto, mi sono sentito un 'niente'. Ecco: la scrittura mi ha fatto tornare un essere vivente, progettante, desiderante, quindi capace di produrre un'opera anche di un certo impegno. Questo, posso dirlo con un certo orgoglio, è il mio sesto libro: con queste mani 'vulnerate' sono riuscito a scrivere 2 mila pagine".

Tu sei indubbiamente una persona colta, anche se provieni da origini umili e contadine. Per te la cultura non è un bagaglio, ma un patrimonio di princìpi da applicare ogni giorno: perché, dunque, hai scelto questo titolo?
"Nel deposito bagagli si arriva e si parte, si deposita e si 'riprende'. Ecco, la mia vicenda è stata una frattura radicale, un arrivo ma poi anche una 'ripartenza'. Nel deposito bagagli c'è un fardello, ci sono delle valigie e c'è una storia. E la mia storia in questo libro c'è, della 'prima' e della 'seconda vita'. Se si leggono le ultime pagine del libro, si capisce il senso profondo di questo titolo, perché il tragico e il comico delle mie ultime pagine ha voluto, tramite alcune metafore, che si congiungessero. E' chiaro che quanto mi è accaduto appartiene alla categoria delle assurdità. Ma più che il tragico, a volte è il comico ciò che lo evidenzia, perché il mondo, nella mia visione filosofica, è un teatro dell'assurdo".

Nel tuo intervento durante la presentazione del libro hai parlato di fatalismo, però quanto ti è capitato è senza cause, senza un senso, una motivazione precisa, un errore, un viaggio in un Paese esotico, dove magari possono esserci dei parassiti o dei batteri: insomma, l'elemento del 'fato' c'è, perché ti è capitata una cosa fra 'capo e collo', diciamolo francamente...
"La differenza, in questo caso, è proprio questa: io non ho compiuto alcun gesto che mi portasse a questo. Faccio un esempio: se io avessi guidato un'automobile a 200 chilometri orari in autostrada senza allacciare le cinture di sicurezza, esagerando mi sarebbe potuto capitare di andare a sbattere e di finire su una sedia a rotelle. Invece, qui il 'punto-chiave' della questione è che io sono un 'condannato-innocente'. Io non ho fatto niente: non ho avuto un comportamento 'fattuale' rischioso. Questa cosa fa interrogare profondamente: io sono innocente, non ho ammazzato nessuno, non ho stuprato nessuno, non sono un ladro, non sono andato in giro per il mondo a divertirmi. Eppure, sono un condannato: su questo non c'è dubbio. Pertanto, è proprio qui che si innesca l'interrogazione filosofica, teologica, metafisica: esattamente su questo punto".

Abbiamo ascoltato il punto di vista di un religioso e quello di un politico. Tuttavia, proprio il politico, Giuseppe Averardi, ha parlato di resurrezione in una 'chiave' quasi cristiana: non potrebbe trattarsi semplicemente del fatto che non ti sei arreso al fato, che a tuo modo hai reagito in una visione laica e metastorica?
"Sicuramente. Ma se vado con la memoria a com'ero, una 'resurrezione', tra virgolette, c'è stata, pur depurando questa parola dal tono religioso. Io sono un esempio, che ovviamente non ho scelto io di essere - ne avrei fatto volentieri a meno - di come l'umano, se s'impegna grandemente, può sconfiggere anche un male disumano. Ciò può avere un valore, al di là della mia persona. E questo libro mi è caro, perché in esso c'è traccia di questo sforzo: a volte l'umano riesce a vincere l'inumano".

Tu oggi hai dichiarato: "Per alcuni anni sono stato una bomba di rabbia, sempre sul punto di esplodere": non pensi che quelle tue difficolta servissero ad apprendere ancora meglio molte cose, senza aver bisogno di dover aprire alcun libro? Insomma, il male può insegnare?
"Il male e il dolore hanno un valore magistrale. Essi insegnano, innanzitutto, a stare nei limiti. Se c'è una cosa ch'io difendo, questa è proprio il limite. Ciò che è assoluto, eterno, infinito mi 'suona' strano: un uomo deve stare nei limite. Certamente, questa mia esperienza, esistenziale e reale, vale più di 10 mila libri letti: è chiaro che è così, perché ti fa guardare più in profondità nelle cose. L'intelligenza proviene dai termini 'intus legere', che significa: guardare 'dentro' alle cose. Dopo questa esperienza, guardo 'dentro' alla vita, ai rapporti umani, alla Storia, alla filosofia e alla religione, forse, con più profondità. In tal senso, potremmo parlare di un'acquisizione importante, straordinaria, pagata a caro prezzo ma, indubbiamente, importante".

Cosa pensi di chi afferma che il 'passaggio' attraverso il dolore spesso sia semplicemente retorico, un qualcosa di 'pesante' che fa perdere la 'leggerezza' dell'intuitività creativa?
"Beh, ognuno risponde anche secondo il proprio dato caratteriale. Per fortuna, il mio 'lato caratteriale' è più 'morbido', rispetto alla realtà. Perché la realtà ci sovrasta, dunque dobbiamo avere l'umiltà di adattarci a vivere anche in un contesto completamente nuovo. Chi avrebbe mai detto che sarei tornato qui, in questa biblioteca, su una sedia a rotelle? Qui dove venivo a studiare durante gli anni universitari? E' chiaro che tutto questo ti 'sbalza' in una realtà psicologica ed esistenziale non immaginabile. E questo mio libro può anche essere utile al lettore, poiché riassume questo passaggio traumatico e drammatico. Io l'ho scritto certamente per me - mentirei se dicessi che non è così - ma anche per gli altri, affinché si possa trarre qualche utile insegnamento".

Un'ultima domanda anche sulla prima parte della tua vita, quando sei diventato un funzionario del Senato attraversando anni storicamente molto importanti della vita del Paese, come per esempio quelli del primo centrosinistra, che fu preceduto da un dibattito dignitosissimo: cosa senti di dover dire su questa deriva di 'appiattimento' sul presente da parte dei nostri giovani, che sembrano vivere tutto quanto nell'immediato, senza calcolare in alcun modo il valore della memoria?
"Ti ringrazio per questa domanda, poiché io ho avuto la fortuna di attraversare diversi ambienti: il mondo contadino; quello del sottoproletariato urbano; quello della politica; gli anni della contestazione, dato che mi sono laureato negli anni cosiddetti 'caldi' (1968-'69); poi il mondo intellettuale e quello delle riviste. Ambienti che mi hanno formato: provenire da umili origini popolari ed entrare in Senato, dove potevo incrociare Nenni, Saragat, Parri, Moro, Terracini, insomma tutta quella generazione che aveva fatto la lotta antifascista, che aveva fatto parte dell'Assemblea costituente, avere modo di entrare in contatto e di vivere questa esperienza dentro le istituzioni parlamentari è stato certamente formativo e gratificante. Quelle erano persone animate da una forte passione politica, poiché provenivano da una lunga Storia: una classe politica non s'improvvisa. Quella era un'ottima classe politica perché era stata 'temprata' da prove molto dure e si erano misurati con i grandi dibattiti intellettuali del loro secolo".

E quindi? Con i nostri giovani cosa dobbiamo fare?
"Dobbiamo invitarli a coltivare la 'memoria', quella individuale e anche quella collettiva. E in tal senso, la lettura di questo libro può essere utile".

Per seguire la presente intervista in versione video cliccare QUI


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Vincenzo - Velletri (Roma) - Mail - martedi 20 dicembre 2016 19.23
Tanti auguri per le feste e un abbraccio al direttore da parte mia e tanti auguri di felicità a tutti voi in famiglia da un vostro amico e lettore.
Cristina - Milano - Mail - martedi 20 dicembre 2016 19.21
Bellissima intervista.
Roberto - Roma - Mail - lunedi 19 dicembre 2016 11.50
Un classico esempio di persone ligie al loro dovere nei confronti dello stato, che purtroppo oggi scarseggiano. Giusto chiamarlo in causa.


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