Carla De LeoIl monologo portato in scena al Teatro Trastevere nei primi giorni di febbraio da Claudia D'Angelo, intitolato 'Mano sul cuore: nient'altro che la verità', merita di essere recensito, al fine di approfondire alcune questioni dell'universo femminile che ci stanno a cuore. Innanzitutto, si tratta del punto di vista di una normalissima ragazza della periferia romana: un testo irriverente e, a tratti, assai divertente, che tuttavia ha il demerito di non riuscire a mettere a fuoco con obiettività la questione che la rappresentazione vorrebbe affrontare nel suo complesso. Lo stile della D'Angelo, che nella vita di tutti i giorni è una poetessa e scrittrice dotata di lodevole sensibilità, risulta troppo 'ancorato' alla realtà sociale romana. Una caratteristica che introduce numerosi elementi di specificità: interi 'mondi paralleli' di altre parti d'Italia, o ambienti sociali ben definiti e 'distinti', nell'analisi dell'autrice finiscono con l'essere marginalizzati, poiché privati di ogni confronto o paragone. La critica che la D'Angelo propone nei riguardi della 'binarietà' maschile è leggibile tra le righe di un'esperienza di vita che, in fondo, ha toccato con mano l'incapacità delle generazioni più giovani nell'affrontare la vita e il proprio stesso futuro con senso di responsabilità, caparbietà e impegno. Ma accanto alle delusioni che via via la protagonista ha incontrato nella propria stagione giovanile, il suo linguaggio subisce una serie di contaminazioni idiomatiche dalla netta provenienza maschile, verso le quali l'universo femminile romano troppo spesso tende ad adeguarsi, rinunciando ad andare a incidere sul grado di maturazione dell'altro, inteso in una 'chiave' sociologica. Non a caso, lo spettacolo della D'Angelo è diviso in 4 parti, che 'segmentano' bene le diverse fasi di crescita di una ragazza sensibile e romantica, ma alla fin fine amareggiata da una disillusione che tende a far proprie espressioni e trivialità le quali non solo hanno poco a che fare con la poetica popolare di un Trilussa o le folgoranti intuizioni di un Ettore Petrolini, bensì tradiscono la realtà di una giovane donna che ha attraversato gli anni del 'riflusso' e del 'machismo' edonistico, dell'esaltazione di un ideale puramente statico e salutista del corpo in quanto elemento esclusivamente estetico, materialistico, senz'anima. Intendiamoci: il testo della D'Angelo contiene riflessioni validissime e interessanti. Ma il suo punto di vista, oltre a risultare 'romanocentrico', cioè incentrato a descrivere la 'parte' più negativa di una romanità 'biascicona' e 'strascicata' che, detto francamente, non sopportiamo più, è rappresentativo dell'esperienza di una ragazza con evidenti carenze affettive. Mancanze psicologiche che l'hanno spesso esposta a slanci eccessivi di apertura e generosità nei confronti di un mondo, quello del 'maschietti' romani, nient'affatto "disegnati col pennello", come recita la nota canzone popolare, bensì che ha ormai perduto ogni riferimento valoriale in grado di andare al di là della mitizzazione del sesso, dell'utilizzo del corpo femminile come puro 'sfizio' adolescenziale o in quanto 'trofeo' da collezionismo. Non è un caso, secondo noi, che la parte migliore di questo copione teatrale sia quello conclusivo, dedicato all'estinzione dei baci all'interno dei rapporti di coppia. Si tratta, infatti, della riflessione più matura e più saggia, che ben delinea come la ragazza abbia compreso quel processo di chiusura psicologica in cui la rarefazione di un gesto affettivo, quello più semplice e più romantico, rappresenti un 'sintomo' preciso, indicativo di quel 'consumismo affettivo' di cui abbiamo fatto cenno. La ragazza si è accorta di una consuetudine psicologica, prim'ancora che comportamentale, di occultamento omologativo di sentimenti e passioni. Consuetudini che, inevitabilmente, portano con sé i germi stessi della consunzione di ogni tipologia di rapporto, d'amore, amicizia o semplice conoscenza essi siano. Si tratta di fattori provenienti dal profondo abisso del 'gallismo maschilista' italiano, che tende a considerare le donne come semplici 'oggetti'. La D'Angelo, insomma, alla fine chiarisce il 'punto', giungendo al 'nocciolo' della questione. Ma lo fa al termine di un percorso piuttosto complicato, dopo un'assai lenta decrittazione della realtà, che denuncia una lunga fase di 'confusione' emotiva. La maturazione della ragazza poteva avvenire assai più gradualmente e, al contempo, rapidamente, evitando di lasciarsi 'obnubilare' da complessi psicologici e carenze affettive, da un bisogno adolescenziale e possessivo di affetto, che l'ha condotta a comportamenti da 'innamorata dell'amore'. Forse, l'effetto è anche voluto, al fine di avvicinarsi maggiormente alle esperienze del pubblico: probabilmente, l'essenza 'tragicomica' dello spettacolo è esattamente questa. Tuttavia, ciò non elimina la nostra impressione di esserci trovati di fronte al percorso di una ragazza tutto sommato 'normale', incappata in persone sbagliate ed esperienze assai poco costruttive. Ribadiamo come sia il mondo romano, in particolare, ad aver perduto ogni 'bussola' di orientamento, non accorgendosi di essere trasceso nella cafonerìa e nel becerume qualunquista. Un fenomeno di cui, probabilmente, i cittadini capitolini stessi non hanno neanche fatto in tempo ad accorgersene, poiché dovuto a un vero e proprio 'massacro' di quel 'ceto medio' produttivo di una metropoli che ha vissuto una sorta di 'fascismo di ritorno'. Attenzione, dunque: il vero problema che autrici come la D'Angelo e altri sarebbero tenuti a sollevare, a nostro avviso è politico, non sociologico, magari arrampicandosi con maggiore coraggio anche su versanti che la 'romanità comune' continua a ritenere noiosi o sconvenienti. Detto in estrema sintesi: una buona parte di questo Paese, dunque non soltanto la città di Roma, è stata avvolta da un gretto fascismo subculturale, che ha annientato, col proprio conservatorismo egoistico, ogni punto di riferimento in grado di portare a compimento una crescita equilibrata di molti giovani. Si tratta di un problema che andrebbe denunciato. E di ciò, la D'Angelo avrebbe potuto dimostrarsi maggiormente consapevole. La società italiana non è composta unicamente da uomini che, come amano dire, per pura convenzione, molte ragazze: "Sono tutti uguali". E' proprio un'intera 'parte' della nostra società - la maggioranza, purtroppo - a risultare culturalmente inadeguata, poiché ormai totalmente desensibilizzata.


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Roberto - Roma - Mail - martedi 16 febbraio 2016 12.36
Una recensione magistrale. Ottimo lavoro.


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