Carla De LeoNella scena finale dello spettacolo 'Fak Fek Fik', vincitore dell'ultima edizione del Roma Fringe Festival 2015, ci ha fatto molto piacere assistere alla performance della giovane attrice Martina Badiluzzi, la quale ha raccontato al pubblico una festa aziendale di Natale in cui, nonostante i dipendenti non fossero pagati da almeno 6 mesi, questi decidono di organizzare un piccolo ricevimento in onore del loro datore di lavoro, nonché proprietario dell'impresa stessa. Finalmente, qualcuno ha cercato di analizzare le assurdità che accadono, in questi bruttissimi tempi, all'interno del mondo del lavoro. Uno dei limiti della nostra produzione teatrale, letteraria, drammaturgica, cinematografica o più genericamente intellettuale, è stato infatti quello di concentrarsi esclusivamente sulla drammatica estinzione della nostra tradizionale cultura contadina e pre-industriale, in forma ora di idillio, ora di epicedio straziato nei confronti dei suoi 'ragazzi di vita' per Pier Paolo Pasolini; di resoconto della forzata irruzione della Storia in un mondo quasi immobile per Ferdinando Camon ('Il quinto Stato'); di soave follia per Luigi Malerba ('La scoperta dell'alfabeto'); di incurabile ipocondria verso i sentimenti aggravata dal lavoro in fabbrica per Paolo Volponi ('Memoriale'). La fabbrica e tutto ciò che da sempre l'accompagna in termini di alienazione umana e di realistica analisi antropologica dei rapporti di lavoro, raramente appare in primo piano all'interno della nostra produzione culturale. E il cosiddetto 'romanzo industriale', un genere che ha avuto grandi momenti di splendore in Germania, Francia e Inghilterra, qui da noi non riesce mai a emergere dal 'documentarismo' più asettico e impalpabile. Per chi soffre una realtà di dissoluzione materiale, spirituale, morale e culturale, rimpianto e nostalgia si trasformano in qualcosa di ovvio, che non solleva problemi particolari. Ed è forse per questo motivo che l'unico scrittore impegnatosi a redigere con occhi veramente 'asciutti' il certificato di morte di un passato composto eminentemente da Dio, Patria e Famiglia sia stato Luigi Meneghello ('Libera nos a malo' e 'Pomo pero'), il quale ha saputo mettere il proprio 'illuminismo' al servizio di un più logico 'inventario linguistico': se istituti, cibi, abiti, mestieri, giochi, ornamenti, farmaci, usanze domestiche e persino odori e sapori della vecchia 'Italietta contadina' si sono ormai 'inabissati', occorre salvare la nostra memoria attraverso una serie di 'tecniche di vita' in grado di 'infilzare' con lo spillo dell'entomologo quelle parole che rappresentano un senso corrispondente alle 'cose'. Questa strana mancanza di linearità, questo genere di prosa assolutamente originale, è esattamente ciò che ha convinto molti giurati del Roma Fringe Festival 2015 ad assegnare allo spettacolo 'Fak Fek Fik' anche il premio per la miglior drammaturgia. E chi non ha compreso il perché di tale riconoscimento farebbe bene a uscire dalla mera autoreferenzialità, per decidersi a raccontare la realtà dei nostri giorni allontanandosi dai consueti 'binari' del settore artistico, allargando cioè la propria analisi anche verso il mondo all'esterno. La crisi del teatro è importante e non intendiamo sottovalutarla. Ma esso non può continuare a considerarsi al centro dell'universo. Maggiormente sensibile verso l'analisi antropologica della nostra vita quotidiana, il cinema italiano, invece, ha saputo essere uno 'specchio' assai più fedele dei cambiamenti avvenuti nel Paese. La cosiddetta 'commedia all'italiana' ha donato al pubblico spunti satirici e verità 'squarcianti' che hanno realmente illuminato le ordinarie vergogne di una cieca corsa, tutta italiana, verso un benessere grettamente materialista. In 'Divorzio all'italiana' di Pietro Germi, attraverso una 'scettica eleganza' si scherza sull'assurdità di un codice penale che non puniva i 'delitti d'onore' del 'maschio' italiano; e nella pellicola 'Una vita difficile' di Dino Risi si è affrontato di petto il dramma di quegli italiani che hanno creduto negli ideali della Resistenza e che si sono visti travolti dalla iattanza cafona di tanti 'neo-ricchi'. Sempre Dino Risi, ne 'Il sorpasso', ha saputo ritrarre, attraverso un ritmo filmico tutto 'a singulti', la 'giornata tipo' di uno dei tanti parassiti che raccolgono le briciole dei nuovi modi di vita imposti da una modernità vacua, canagliesca, alla fin fine amarissima. Ma anche in questo settore, le leggi del successo commericale e dell'autoreferenzialità sono riuscite a imporre la superficialità e l'involgarimento. Alcune pellicole di buona fattura hanno preteso di 'intonacare' la nostra 'Storia-Patria' diffondendo ideologie giustificazioniste e autoassolutorie: 'La grande guerra' di Mario Monicelli e 'Tutti a casa' di Luigi Comencini, tanto per fare alcuni esempi, hanno presentato figure di italiani i cui tratti indolenti vengono addebitati alla nostra tradizionale 'arte di arrangiarsi', mentre la satira si è spesso lasciata andare al 'macchiettismo' e alla bonaria presa in giro - ci stiamo riferendo, in particolare, al film 'Il vigile' di Luigi Zampa - di costumi e modi di vivere accettati con eccessiva indulgenza. Fortunatamente, qualcuno a un certo punto si accorse che certe nostre 'istituzioni' non tenevano più. E con tocco assai delicato, il grande Luchino Visconti, in 'Rocco e i suoi fratelli', seppe splendidamente fotografare una famiglia di immigrati la cui esigua manciata di valori morali viene letteralmente 'bruciata' dai labirinti della grande città, mentre il geniale e fantasioso Federico Fellini, ne 'La dolce vita', è stato uno dei pochi a raccontarci una Roma stordita e corrotta, in cui ogni compostezza sprofonda in un paganesimo provinciale, che celebra i propri riti goderecci senza nemmeno riuscire ad attingere a una 'grandiosa malvagità'. Poi è giunta l'epoca del cinema 'di denuncia civile', dalla chiara impronta politica. Su tale versante, illuminanti si sono rivelati i film di Francesco Rosi ('Le mani sulla città' e 'Il caso Mattei'); addirittura 'radiografici' quelli di Elio Petri ('A ciascuno il suo' e 'La classe operaia va in Paradiso'); dolorosamente poetici quelli di Pier Paolo Pasolini ('Uccellacci e uccellini' e 'Mamma Roma'). Mentre a rammentarci che l'istituzione maggiormente priva di tenuta è proprio la famiglia ci hanno pensato Marco Bellocchio ('I pugni in tasca'), il 'crudo' Salvatore Samperi ('Grazie zia'), il quasi 'onirico' Marco Ferreri ('Dillinger è morto'), i quali hanno appuntato i propri 'strali' contro le atrocità del matrimonio, le ipocrisie del 'familismo amorale' all'italiana e gli egoismi dei moderni rapporti di coppia. Tuttavia, tranne queste eccezioni, in linea generale la nostra produzione letteraria e cinematografica continua a dare l'impressione di intrattenere con la realtà italiana un rapporto sovrastato dalle bronzee leggi degli schematismi ideologici: da una parte si riproduce un'Italia arcaica, pervasa da forme di sfruttamento e di sopraffazione che lo sviluppo economico non è mai in grado di 'intaccare' o, quanto meno, di correggere; dall'altra, si rincorrono i volti di una borghesia concepita nel più idealtipico dei modi, come un banale epifenomeno la cui 'coscienza storica', quando c'è, rappresenta solamente un 'rivolo di spurgo'. E' sempre stato sostanzialmente questo il giudizio espresso sulla società italiana dal predominio comunista sulla cultura. Ed è quindi giunto il momento di affermare a chiare note che l'italo-marxismo è sempre stato trattenuto da un perdurante giudizio anti-industrialista, incapace di aprirsi a una critica 'superatrice' del capitalismo. Ciò è avvenuto a causa di una politica culturale che, a sinistra, ha coltivato a lungo la paura dello sviluppo economico, giudicando il 'congelamento dei dualismi' e delle permanenze pre-industriali come il viatico migliore per la crescita delle forze produttive, al fine di una transizione democratica al socialismo. Ma questo errore è disceso, a sua volta, dai 'filtri' a cui è stata sottoposta, qui da noi, la dottrina di Karl Marx dai due autori più amati, Antonio Gramsci e Gyorgy Lukacs, i quali, per ragioni diverse, sono sempre stati assai poco attratti dai problemi della modernità: il primo poiché è stato un pensatore sostanzialmente ottocentesco; il secondo, perché non è mai riuscito ad andare oltre una concezione assai rigida della 'totalità dottrinaria marxiana'. I tentativi migliori di riannodare i fili della riflessione di Marx all'evoluzione della società post industriale - come per esempio quello di Galvano Della Volpe, che ha sempre insistito sul metodo 'galileiano' del filosofo di Treviri, nel tentativo di aggirare autentici 'macigni concettuali' quali quelli di 'rivoluzione' e di 'socialismo' postulando una "transvalutazione normativa" della democrazia che passasse attraverso una serie di coraggiose 'riforme di struttura' - sono sempre stati 'stroncati' da bruschi richiami all'inammissibilità dei 'saperi eclettici'. La conseguenza culturale più devastante di ciò è stata una vera e propria messa in 'quarantena' delle cosiddette 'scienze sociali': mentre in tutti gli altri Paesi occidentali sono stati regolarmente pubblicati i grandi classici della sociologia, da Weber a Durkheim, da Tonnies a Thomas e Znaniecki, da Aron a Kelsen, da Fromm a Galbraith, in Italia si continua a 'setacciare' la letteratura marxista e post marxista continuando a proporre Baran, Braveman, Lukacs, Sweezy, Horkheimer, Adorno, Marcuse e persino Mario Tronti. Un'egemonia di tal genere deriva soprattutto da una classe intellettuale che continua a gettarsi 'a capofitto' nell'applicazione della teoria del materialismo storico alle arti e alle scienze, tentando di rompere il proprio 'accerchiamento' avvinghiando se stessa a una snobistica immagine di 'intellettualità' totalmente autoreferenziale. Esaurito il filone neo-realista, la narrativa italiana, tanto per fare un altro esempio, ha vissuto in una sorta di 'limbo' complessivamente riluttante ad assumere ogni genere di trasformazione come oggetto di riflessione critica, vagabondando straccamente tra un intimismo totalmente soggettivo e un 'indifferentismo' allergico a tutto: dalla televisione al cinema, dal calcio al turismo di massa. In forme linguisticamente assai diverse, solo tre romanzieri hanno assunto, nei riguardi del loro tempo, un atteggiamento che non fosse di supina accettazione o di aristocratico disdegno: Pier Paolo Pasolini, che con angoscia quasi mistica ha censito le potenti attitudini 'mortifere' della modernità; Italo Calvino, che è riuscito a conservare una fiducia tutta illuminista nella possibilità di riuscire a dominare razionalmente il "brulicante mare dell'oggettività" contemplando il mondo dall'alto (come il suo 'Barone rampante', che decide di trascorrere la propria vita sopra un albero); Leonardo Sciascia, la cui 'sicilitudine ombrosa' è stata freddamente applicata a una diagnosi implacabile dell'organizzazione pianificata del male in quelle società soggette a processi di arricchimento inegualitario o fortemente accelerato. Infine, dopo una 'lunga notte' di muta erudizione, rischiarata solamente dal 'crocianesimo eterodosso' di Federico Chabod e dal marxismo 'rovistante' di Delio Cantimori - uno storico 'gentiliano' funambolicamente 'accampatosi' su posizioni di frontiera "per questioni di chiarezza" - il mondo dell'establishment editoriale e culturale italiano ha compiuto il suo capolavoro più orripilante: la creazione di una storiografia di 'appartenenza', al fine di 'riscrivere' la Storia d'Italia sottoforma di storia delle grandi forze popolari che hanno costruito la democrazia. Ma il profilo che è stato fornito del Partito socialista, del Partito comunista e dell'associazionismo cattolico è stato quello di movimenti abilitati al protagonismo politico del dopoguerra non soltanto dal patrimonio di lotta dell'antifascismo, ma più che altro dalla loro estraneità alla tradizione del moderatismo prefascita. Ciò ha rappresentato un errore gravissimo, che ha rinchiuso l'esperienza autoritaria fascista all'interno di una 'parentesi storica' capitata quasi per caso: una gigantesca 'rimozione collettiva' che ha finito col giustificare ogni genere di revisionismo. Per fortuna, non sempre un'appartenenza esplicita ha fatto velo all'onestà intellettuale o è riuscita a ottundere le grandi capacità interpretative di alcuni storici: la 'Storia del socialismo italiano' di Gaetano Arfè, per esempio, è riuscita ad approdare a una ben argomentata rivalutazione del riformismo 'turatiano'; la documentatissima 'Storia del movimento cattolico in Italia' di Gabriele De Rosa ha saputo trarre in superficie un insospettato continente di uomini e istituzioni - quello dell'intransigenza clericale e populista - in cui hanno sempre germinato 'sensibilità sociali' destinate a 'vaccinare' il cattolicesimo democratico dai pericoli del confessionalismo; la monumentale 'Storia del Partito comunista italiano' di Paolo Spriano ha sfatato miti e leggende intorno a un Pci legittimo erede del Machiavelli, mettendone a nudo quel cieco settarismo che lo ha reso responsabile di disastri ai quali è stato poi costretto a rimediare in fretta e furia; infine, Rosario Romeo, ne 'Il giudizio storico sul Risorgimento', oltre a rianimare un indirizzo di studi ingiustamente negletto, ha saputo sforzarsi nel tentativo di salvare quei valori di libertà civile, di intraprendenza individuale, di serietà politica, di competenza amministrativa e di spirito di servizio verso le pubbliche istituzioni sempre più minacciate dalla demagogia tribunizia e dalle 'elemosine' di uno stato sociale concepito nella maniera più 'assistenzialista' che si potesse immaginare. Tutto ciò impone, all'interno del mondo culturale italiano, una riflessione assai più serena, ma al contempo più onesta, che si allontani definitivamente da quei modi e da quegli 'stilemi' che hanno sempre condotto il pensiero cosiddetto 'progressista' a rinchiudersi in una sorta di 'ghetto', limitandosi a creare unicamente 'controdogmi', nel tentativo di opporsi ai consueti 'dogmi' del moderatismo qualunquista. Continuare a contrapporre il vecchio schematismo della cultura borghese impegnato a contenere l'avvento delle nuove generazioni e delle loro 'culture altre', giustamente imperniate attorno al tema della diversità e di una maggiore 'inclusività sociale', rischia solamente di inchiodare ulteriormente il dibattito attorno ai soliti 'arroccamenti' ideologici, da una parte e dall'altra. Ci vuole più coraggio. E un ritorno a forme di 'etica collettiva' maggiormente 'sganciate' dalla preoccupazione di dover portare avanti unicamente, o soprattutto, se stessi.


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Roberto - Roma - Mail - lunedi 13 luglio 2015 8.6
Splendida analisi. Non sono d'accordo su molti punti, ma si tratta di un approfondimento vero, sentito, scritto molto bene.
dante - antonelli - Mail Web Site - domenica 12 luglio 2015 15.17
Grazie della considerazione e di aver saputo leggere il nostro lavoro in modo così vicino allo spirito che lo ha generato e voluto così. Coraggio chiama Coraggio. Buon proseguimento di lavoro.


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