Ennio TrinelliE' difficile vivere in un Paese in cui l'ignoranza regna incontrastata su tutto ciò che è umano, nel senso più profondo del termine. E in cui un simile sentimento viene scambiato per aristocratico senso di superiorità (etimologia di aristocratico: "I migliori", sic!). Potrei andarmene di nuovo, se non avessi già visto e vissuto in abbastanza luoghi e abbastanza a lungo da rendermi conto che il problema del razzismo gratuito non è solo italiano: è mondiale. Solo che alcuni popoli lo mascherano meglio. Come diceva Marguerite Yourcenar: "Bisogna pur vivere da qualche parte". Quindi, tanto vale stare qui. Ho incontrato in treno un trentenne nigeriano "rifugiato", che non poteva credere che un italiano (bianco) parlasse fluentemente l'inglese con accento britannico e fosse a conoscenza di ciò che succede nel suo Paese, dall'islamismo a la 'sharìa' nel nord, a Boko Haram nel resto della Nigeria e nelle nazioni confinanti. Egli mi ha raccontato che gli hanno rifiutato un lavoro come insegnante d'inglese madrelingua nella civilissima Emilia Romagna, dicendogli che un nero non può essere un insegnante: gli allievi non s'scriverebbero. Fosse un nero americano, dico io, il problema non si presenterebbe. Il 'mito americano' ci regala neri di serie A e di serie B. E gli italiani, divorati dalla tivù digitale, X-factor, Sky e telefonini, hanno perso di vista ciò che li rende umani: l'intelligenza. A poco servirà spiegare che i 'poveracci' che fuggono dall'Africa, un continente devastato da guerre, terrorismo, faide tribali, dittatori sanguinari che si intascano ogni aiuto in dollari per lo sviluppo dei loro Paesi e in cui la giustizia è un miraggio e le libertà individuali anche, sono quegli stessi migranti italiani che popolarono il nord e sud America tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo. E' già complicato da leggere: figuriamoci capirlo.


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