Ilaria CordìSiamo pronti per Expo 2015? La domanda è legittima e gli italiani sono sempre più convinti che qualcosa non andrà come deve. A 15 giorni dall'inizio di un tale evento mondiale, il nostro Paese sarà in grado di essere per ben 6 mesi sulle prime pagine e sulla bocca di tutti? Ciò di cui non ci rendiamo conto, perché tendiamo a fare orecchio da mercante, è che l'Italia, oggi, non è al pari, economicamente, socialmente, burocraticamente e umanamente, di molti nostri 'confratelli' europei e, guardando prospettivamente oltreoceano, al resto del mondo. Perché siamo diventati una barzelletta. Un tempo si raccontava: "Ci sono un francese, un inglese e un cinese". Oggi, la terminologia più adatta sarebbe: "Ci sono un italiano, un italiano e un italiano". Purtroppo, non è un 'arlecchinata', ma la realtà nuda e cruda, che da troppo tempo rende le cose non semplici. Un esempio di questo nostro cruccio: il premier, Matteo Renzi, si è recato nei giorni scorsi sulle rive del Bisagno, il torrente che lo scorso autunno ha stravolto la vita quotidiana dei cittadini genovesi. E quasi simpaticamente, egli ha affermato: "Sono finite le chiacchiere: è tempo di ripartire". Sì, ma per dove? La dura realtà del nostro Paese è riassumibile nel termine 'paura': non ci si può recare tranquillamente sul posto di lavoro, poiché è possibile che diventiamo vittime del malcontento di una persona o di un collega; non si possono portare i figli a scuola, perché le strutture crollano come fossero fatte di sabbia; da 15 anni a questa parte siamo nel pieno di una crisi che sembra non avere fine; da anni, stiamo aspettando sentenze giuridiche; da decenni, la nostra sanità fa rabbrividire e vediamo i nostri cari morire. I nostri politici non si sono mai resi conto che, appena possono, i migliori 'cervelli' scappano, perché all'estero esiste una prospettiva che in Italia non vi è più da tempo; che i ragazzi abbandonano la scuola per cercare un posto di lavoro con cui mantenere la famiglia, dato che padre e madre non riescono ad arrivare alla fine mese; che i nostri anziani, malati terminali, non hanno diritto a un'assistenza attraverso la quale portare a termine il lungo viaggio della vita, poiché gli ospedali sono pieni e le case di riposo costano troppo; che i giovani sono costretti a fare il servizio ai tavoli dei bar con due lauree. Sembra quasi che, nel momento in cui si fa luce su questi problemi, i nostri leader siano talmente amareggiati da prodigarsi immediatamente a risolvere tali questioni, ma puntualmente accade sempre qualcosa di più grave e l'avversità precedente cade in secondo piano, se non nel dimenticatoio. Così è stato per L'Aquila; così è stato per i Marò; così è per l'Italia. La riflessione da fare, a nostro parere, giunti a questo punto è la seguente: il prestigio di una nazione si costruisce con iniziative di marketing, con l'immagine di una popolazione che mangia bene, come magari riusciremo anche a dimostrare all'Expo, oppure garantendo un tenore di vita e un'economia reale dignitosa, così come sancito da ogni singolo articolo della Costituzione 'materiale'? Dignità intesa nella poliedricità delle accezioni in cui si può declinare il termine: dignità nel non essere guardati male quando ci si sposta da sud a nord; dignità nell'attraversare il Paese senza che l'autostrada ceda a causa di un temporale; dignità nel coltivare pomodori su terreni non cancerogeni; dignità nel non doverci disprezzare tra noi perché riempiamo le periferie delle nostre città di rifiuti e microcriminalità. Insomma, siamo veramente pronti ad aprire le nostre porte al mondo? La domanda, seppur legittima, cadde nel vuoto.



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