Carla De LeoMentre sul versante interno sono centinaia le imprese di costruzione italiane che falliscono ogni anno, o il cui fatturato è ormai ridotto ai minimi storici, assistiamo a una situazione completamente differente se allunghiamo lo sguardo al di là dei confini nazionali. Analizzando attentamente l'andamento delle imprese che operano anche al di fuori dell'Italia, constatiamo, infatti, una vera e propria sostituzione tra le attività nazionali e quelle estere. È ciò che ha rilevato di recente il Rapporto Ance (Associazione nazionale costruttori edili) il quale, prendendo in esame i dati raccolti dalle 38 aziende che attualmente aderiscono all'indagine, ci ha fornito dati e numeri molto interessanti da confrontare: mentre, nel 2004, il 70% del fatturato veniva prodotto in Italia e quello estero pesava poco più del 30%, in meno di dieci anni la distribuzione delle percentuali è quasi completamente ribaltata. Dal 2004 al 2013, le imprese, in Italia, hanno visto diminuire le proprie attività del 7,2%, con un fatturato prodotto inferiore al 40%. Viceversa, il fatturato estero incide oggi con il 60,1%, testimoniando una crescita esponenziale, pari al 206% (media crescita annua superiore al 13%). E solo nel 2013 la produzione dei 'contractor' italiani è aumentata dell'8,6% rispetto all'anno precedente. Questi dati, riconducibili al Rapporto Ance 2014, evidenziano importanti risultati per le nostre imprese, per le quali il 2013 è stato il nono anno consecutivo di crescita del fatturato, passando da poco più di 3 miliardi di euro del 2004 agli oltre 9,5. Le 38 imprese italiane che aderiscono all'indagine sono presenti in 87 Paesi del mondo (8 di nuova acquisizione) e impegnate in 797 commesse (319 solo quelle ottenute nel 2013), per un controvalore di oltre 70 miliardi di euro. Rientrano nelle aree oggetto di investimento 20 Paesi Ocse, 15 Paesi de G20 e tutti e quattro i Paesi 'Bric'. Rispetto all'anno precedente, sia nei Paesi Ocse, sia in quelli del G20 le acquisizioni del 2013 sono raddoppiate (4,6 miliardi di euro per la prima area, oltre 8 miliardi per la seconda). Al primo posto, l'America Latina si riconferma l'area con il più alto numero di ordinazioni (24,7%), con il Venezuela come piazza più importante per le nostre imprese (anche per le importanti commesse ottenute nel passato). Il Medio-Oriente si colloca al secondo posto, con un'incidenza più che raddoppiata grazie soprattutto al +16,3% delle nuove acquisizioni del 2013: ad Arabia Saudita e Qatar, va riconosciuto il ruolo dei 'leoni'. A seguire: l'Africa subsahariana (11,6%), il Nord Africa (10,8%), l'Europa extra-Ue (10,5%), l'Ue (9,1%), il Nord America (5,8%), il Centro America (5,7%), l'Asia (3,9%) e infine l'Oceania (1,6%). Tra le opere più richieste, oltre ai comparti tradizionali dove le ferrovie risultano leader assolute (con il 33,2%, occupano oltre un terzo del valore complessivo delle commesse), seguite dalle opere idrauliche (19,8% con interventi diretti in tutto il mondo, per un valore superiore ad 1 miliardo di euro), le nostre imprese risultano impegnate anche nella costruzione di strade e ponti (19,6%), impianti idroelettrici, porti, aeroporti e così via. Inoltre, acquistano 'fette' sempre più ampie di mercato anche nell'ambito di impianti ambientali, edilizia sanitaria, 'business center', università, hotel e centri di ricerca. Va assolutamente sottolineato un dettaglio ancora più lusinghiero: all'attività realizzativa viene associata, sempre più frequentemente, quella gestionale, la cui conseguenza è l'ottenimento di importanti contratti di concessione, soprattutto in settori strategici come la sanità e la generazione e distribuzione di energia. I dati riportati riferiscono certamente la situazione di grandi imprese e, soprattutto, di quelle che hanno aderito al rapporto. Ma è fuori dubbio che i mercati esteri rappresentino uno sbocco strategico per le imprese italiane, soprattutto in virtù di un mercato interno notevolmente ridotto dalla crisi. Ciò non toglie che ci troviamo di fronte a un fenomeno positivo, risultati che sono stati possibili grazie all'elevato 'know how' tecnologico raggiunto dalle nostre imprese e all'intenso lavoro di diplomazia economica, che hanno consentito il successo in mercati notoriamente molto competitivi, complessi e difficili da penetrare, come possiamo constatare nel citato caso dei Paesi G20, dove l'ammontare dei nuovi lavori, superando gli 8 miliardi di euro, rappresenta ben il 46% del totale (mentre nel 2007 rappresentava il 15%). Non a caso, l'ambasciatore Michele Valensise, Segretario generale del ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale, ci tiene a sottolineare l'importanza del nostro comparto edilizio all'estero, il cui ruolo non è marginale: in primo luogo perché genera occupazione; in seconda analisi, perché considerando il +8,6% di crescita solo dell'ultimo anno, esso rappresenta un settore che chiama necessariamente in causa la collaborazione e la sinergia tra le imprese e l'amministrazione. E non solo: "Le nostre imprese", dichiara il nostro ambasciatore, "stanno dimostrando di saper intercettare le potenzialità che identificano nei mercati stranieri, sapendo giungere nelle occasioni importanti quando sono ancora in corso di formazione e non già finite e cristallizzate". Sicuramente, questa capacità è il risultato di una crisi che ha 'imposto' valutazioni più accurate sulla scelta delle aree di investimento, maggiori analisi del rischio e nel merito delle potenzialità e delle tipologie di intervento. E probabilmente, "molta parte di quel 206% di crescita fuori dai confini nazionali è giustificato anche dal fatto che le nostre imprese sono 'costrette' ad andare all'estero", specifica il presidente dell'Ance, Paolo Buzzetti. Uno degli obiettivi, pertanto, rimane quello di evitare che un giorno queste imprese diventino proprio straniere: "Ciò implica la necessità di una svolta importante nella politica economica interna", spiega Buzzetti, anche se il viceministro allo Sviluppo economico, Carlo Calenda, rassicura sul fatto che "resistere nei mercati internazionali senza un riscontro forte nei mercati interni è una possibilità piuttosto remota". In un mondo che si trasforma rapidamente, il nostro Paese sta dimostrando di reggere il confronto. La speranza, ovviamente, è che questo dinamismo delle nostre imprese possa trovare uno 'sbocco' anche sul versante interno, affinché questo 'sospiro di sollievo' non si riverberi solo all'estero.


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ARRIGO BORIN - MILANO - Mail - mercoledi 18 marzo 2015 19.54
Diciamocela tutta, le imprese italiane dopo la grande crisi hanno aumentato i fatturati export vendendo prodotti (ma specialmente mano d'opera) con dei margini tirati all'osso; dato che il mercato interno era praticamente surgelato.
L'Italia ha un'economia squisitamente manufatturiera ma con scarso apporto tecnologico, le così dette (e strombazzate dai nostri politici) "eccellenze" si limitano a vendere dei marchi, vedi il caso della moda pret a porter, di beni prodotti dove i salari sono ancora più bassi dei nostri, ma il vero valore (materie Prime, Energia, Mano d'opera, ecc.) rimane in quei paesi e noi ci limitiamo a piccole royalties. Per iniziare a crescere e portarci a livelli a cui i paesi industrializzati sono già pervenuti dovremmo innalzare il livello tecnologico della nostra manifattura. Per fare ciò però è necessario un balzo negli investimenti in ricerca e sviluppo, non parlo dei carrozzoni statali che sopravvivono asfitticamente grazie ad aiuti governativi o della Comunità Europea, ma di investimenti che abbiano una qualche ricaduta nel tessuto produttivo.
Purtroppo tale salto di qualità è praticamente impossibile in un tessuto industriale dove almeno l'ottanta per cento delle imprese ha meno di quindici dipendenti ed i laureati sono vere e proprie mosche bianche.
Previsioni ? Visto che la svolta è in mano alla classe politica avremo una lenta ma costante regressione nei confronti di competitors quali i Paesi BRIC ma anche dell'Est Europa, dove la gente ha fame ed è disposta a qualsiasi sacrificio per avere oggi quegli elementi del wellfare (beni ma specialmente servizi) che noi abbiamo iniziato ad avere negli anni '60. Sfortunatamente non ne abbiamo tratto beneficio come hanno fatto la Germania, l'Inghilterra, la Francia, il Giappone e gli USA; facciamo fatica a prevalere con la Spagna che ha dovuto subire un trentennio di "sonno" franchista.
Di fronte a questo quadro se sento ancora qualche sottosegretario, in visita ad una azienda che commercializza magliette fabbricate in Cina o in Turchia, parlare di un grande paese con grandi idee innovative.... scusatemi ma ho un leggero conato di vomito.


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