Chiara ScattoneLe imprese cooperativistiche tengono testa alla crisi? Forse sì. Se n'è parlato in questi giorni a Ravenna, nel corso del primo congresso della Legacoop Romagna, associazione che racchiude più di 400 imprese che danno lavoro a quasi 30 mila persone nei territori delle province di Ravenna, Forlì-Cesena e Rimini. In Romagna, 'l'area vasta' esiste, se non dal punto di vista istituzionale, certamente da quello culturale, sociale e imprenditoriale. E coinvolge circa 300 mila iscritti alle cooperative, per lo più distinte in tre filiere di attività: agroindustriale, lavoro e servizi, sociali. Come sostenuto ultimamente dall'economista Jeremy Rifkin, il sistema della cooperazione (e della condivisione) oggi si presenta probabilmente come un modello capace di affrontare le sfide del futuro se, come fortemente ribadito stamattina nel corso del congresso, riuscirà a cambiare e a dare voce e sostegno ai bisogni che la società civile e sociale sta esprimendo e le istituzioni pubbliche non riescono ad accogliere. Tra gli elementi di maggior confronto sui quali si basa quest'importante sfida delle imprese cooperative romagnole e non solo, vi sono la necessità di impostare una struttura di 'governance' che a oggi risulta praticamente inesistente, di combattere tutte le illegalità presenti anche all'interno dello stesso movimento cooperativistico con le presenza delle cosiddette "false cooperative" e con l'importanza oramai inderogabile di fare squadra, di collaborare con tutte le realtà presenti nel mondo dell'impresa e della finanza, per garantire un sostegno democratico, sociale e civile che oggi il welfare pubblico da solo non assicura. Il modello 'Legacoop Romagna' si pone da esempio di come la cooperazione tra artigiani, imprenditori, società civile, banche e pubblica amministrazione possa raggiungere risultati positivi, economici e sociali. Difatti, le quasi 500 cooperative romagnole, oltre a tutelare il lavoro con un aumento degli addetti nel periodo 2008-2013 del 6,5%, è riuscita a mantenere più o meno stabile il proprio fatturato, con una lieve flessione dello 0,2% contro l'11,7% delle imprese non cooperative (dati Unioncamere). Il giro di affari si è attestato intorno ai 5,6 miliardi di euro per valore della produzione e di 55,8 milioni come margine operativo netto. Insomma, le cooperative romagnole, seppur colpite dalla crisi, hanno "tenuto botta" e con esse tutto l'indotto dei propri dipendenti e dei soci che in Emilia Romagna sono circa 3,5 milioni. Il futuro dunque parte dalla cooperazione e dall'Emilia Romagna, l'area che insieme alle altre regioni più a nord come la Lombardia, il Piemonte (il Magazzino della Provvidenza sorto nel 1854 dalla Società operai di Torino è la prima cooperativa in Italia) e il Veneto, storicamente rappresenta la culla del movimento cooperativisto italiano. Ma se un tempo l'impresa cooperativa nasceva dalla necessità di creare un'alternativa politica e sindacale all'impresa capitalistica, oggi quella necessità non sussiste più perché, come sostenuto da Mauro Pasolini (vicepresidente uscente della Legacoop Romagna), "vi è il bisogno, pur sempre partendo dal basso, di collaborare con le realtà 'altre' per sopperire a quella funzione sociale e civile che lo Stato non riesce più a garantire da solo. Le imprese cooperative devono dunque garantire il sostegno del mondo sociale, in un contesto di collaborazione e di sussiadiarietà e non di contrasto". Obiettivi difficili ma non impossibili per la Legacoop romagnola, che ha eletto per la prima volta alla sua guida una donna, Ruenza Santandrea, già a capo del 'Gruppo Cevico', dimostrando così di sfatare il mito delle imprese in mano agli uomini. Anche se, come abbiamo notato nel corso del congresso, la maggior parte dei presenti indossava la cravatta e i pantaloni...


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