Vittorio LussanaL’attuale crisi economica della cosiddetta ‘Eurozona’ deriva da un’insufficienza di domanda da parte dei consumatori per i beni di consumo e, da parte delle imprese, per quelli di investimento. E’ cioè il basso livello della spesa, sia per i consumi, sia per gli investimenti, ad aver causato il devastante tasso di disoccupazione dell’intera area mediterranea. Risulta perciò evidente la necessità di un intervento poderoso da parte della Banca centrale europea, per uscire dalla crisi ed evitarla in futuro attraverso una serie di manovre in grado di rialimentare la domanda di consumo, sia dei consumatori, sia delle imprese per i beni di investimento. Ciò potrebbe realizzarsi nei termini di una nuova politica di grandi investimenti pubblici, oppure attraverso una forte detassazione. Intorno a quest’ultimo specifico punto duole dover dar ragione, almeno in parte, agli economisti del centrodestra italiano: l’intervento migliore per rilanciare nel breve periodo gli investimenti produttivi passa attraverso una robusta defiscalizzazione. E’ tuttavia doveroso ricordare come l’intero capitalismo occidentale viva, da svariato tempo, una fase di rigido arroccamento difensivo teso a impedire ogni genere di cittadinanza economica nei confronti di molti nuovi operatori emergenti sui mercati. Una cronica scarsità di capitali e una storica ritrosia all’autofinanziamento e al reinvestimento dei profitti - e degli extraprofitti… - hanno indotto certi cosiddetti ‘grandi manager’ a reagire all’atrofia del mercato azionario attraverso l’indebitamento e la conseguente emissione di obbligazioni, costringendo le banche ad assorbire i titoli emessi e lo Stato a sottoscrivere nuove forme di deficit. Lo Stato, insomma, per il sistema aziendalista italiano ha rappresentato, per tanto, tantissimo tempo, una sorta di ‘mucca’ da mungere, al fine di nascondere la propria incapacità a rinnovarsi e a diversificare la produzione, magari investendo coraggiosamente nei settori di ricerca più avanzati. Si insiste, pertanto, nel sottolineare e ribadire come questo ‘tipo’ di capitalismo risulti ormai inadeguato rispetto ai processi di globalizzazione planetaria, poiché sostanzialmente allergico alla libera concorrenza, soprattutto sui mercati interni, nonché fortemente messo sotto pressione dalla presenza di una moneta fortissima - l’Euro - su quelli internazionali. Resta fuor di discussione come determinate politiche monetarie dalla natura espansiva e inflazionistica, in cui le banche centrali si mettono a stampare moneta a ‘ruota libera’ per finanziare il debito pubblico e tutta la spesa desiderabile, rappresentino un’utopia delirante: non si può chiedere né all’Unione europea, né ai singoli Stati membri di indebitarsi all’infinito. Si tratta di un’antica fantasia ‘statalista’, che porterebbe alla completa distruzione della valuta e dell’economia. Anche perché l’Italia è il Paese meno adatto a percorrere questa strada, magari rinunciando dall’Euro. Perciò, di recente è stata espressa da più parti la teoria secondo la quale si dovrebbe convincere la Germania e gli altri Stati ‘rigoristi’ ad allentare i vincoli della Bce e quelli anti-deficit dei singoli Paesi membri. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte a un'illusione: quella di un nuovo possibile ‘New Deal’, attraverso il quale rimettere in moto l’economia, spendendo molti soldi pubblici per creare posti di lavoro ‘inventati’. Pure questo ‘sentiero’, insomma, risulta difficilmente praticabile: non esistono ricette ‘facili’ o indolori per uscire dall’attuale fase depressiva, ma solamente il duro lavoro, un maggiore risparmio, una riduzione delle spese eccessive. Immettere nuovo denaro nel sistema rappresenta solamente un ‘finto rimedio’, puramente temporaneo, che peggiorerebbe ulteriormente la crisi nel medio-lungo periodo. L’economia si sostiene e si sviluppa essenzialmente dal lato dell’offerta, grazie alle aziende e alle capacità innovative dei nostri migliori imprenditori. In questo caso, una maggior liquidità monetaria può scaturire dal risparmio reale, generato dalla produzione e dallo scambio di beni e servizi. Ora, pur tenendo fermi tutti questi elementi di analisi, dobbiamo anche osservare come l’economia precedente al 2008 sia stata minata da un ‘cancro’, in particolar modo nei settori bancario, immobiliare e dell’intermediazione mobiliare. Si tratta di un ‘bubbone’ che deve essere estirpato alla radice, al fine di tornare verso una condizione di buona salute dell’intero sistema capitalistico globalizzato. Una guarigione che potrebbe vedersi ostacolata da decisioni imprudenti o sbagliate. E’ in base a simili motivazioni che tutte le teorie indirizzate verso forme di rigida austerità hanno mostrato il fianco a critiche fondate, se non fondatissime, poiché il sistema economico più è ampio e globalizzato, meno possiede quelle forze ‘inerziali’ in grado di rimetterlo in equilibrio nel breve periodo. Pertanto, a me pare giunto il momento di cambiare totalmente il ‘piano’ delle nostre riflessioni, per cominciare a immettere punti di vista maggiormente innovativi, cambiando il ‘mazzo’ delle ‘carte’ con cui giocare, come si suol dire, questa nuova ‘partita’. Innanzitutto, proviamo a prendere atto di come i sistemi economici ‘planetari’ o ‘globali’ tendano a stabilizzarsi attraverso prolungati periodi di ‘sottoccupazione’. Appare evidente come, nel corso di queste difficilissime fasi, non si possa più di tanto comprimere ogni processo di crescita, poiché ciò che può valere per le ‘parti’ non è detto che valga per il ‘tutto’. Se l’Europa chiede di tagliare la spesa pubblica, Italia, Grecia e Spagna non possono crescere. E se tutto il mondo ‘taglia’, l’intera crescita mondiale si ferma. Da ciò ne discende, con piena evidenza, come l’austerità rappresenti un rimedio recessivo: un governo non può liquidare il suo deficit se la fonte delle sue entrate, il reddito nazionale, continua a scendere. E’ infatti la riduzione del deficit - e non quella del debito - a essere controproducente, poiché esso implica una forte ‘sottoutilizzazione’ del capitale umano a disposizione, da cui non possono scaturire che condizioni di nuova povertà. Ecco dove avviene la mia personale ‘divaricazione’ rispetto alla visione ‘liberista’ del centrodestra: se la detassazione è parte di un credibile programma di consolidamento volto a ridurre in modo permanente la quota dello Stato nel Pil, le aspettative delle imprese risulteranno senz’altro incoraggiate dalla prospettiva di tasse più basse e profitti più elevati. Ma questo tipo di espansione economica determina, a sua volta, una nuova ‘virata’ negativa della domanda, causata dai continui e ulteriori tagli alla spesa pubblica. In sostanza, la visione econometrica di Brunetta e Berlusconi si può riassumere nel classico: “Meglio un uovo oggi che la gallina domani”. Ma in questo modo il tessuto produttivo del Paese non viene rinnovato, non si selezionano le aziende più sane e competitive, non si eliminano tutti quegli operatori che hanno in ‘testa’ solamente la contrazione dei costi della mano d’opera, bensì si finisce con l’elevare la precarizzazione stessa a sistema, costringendo tutti gli operatori a precipitarsi verso una progressiva riduzione del costo del lavoro pur di rimanere sul mercato. Anche il dogma della defiscalizzazione, insomma, benché apparentemente giustificato da una pressione tributaria indubbiamente eccessiva, non produce granché in termini di crescita, poiché durante i periodi recessivi, in particolar modo quelli temporalmente lunghi, rimedi di questo genere si traducono in mere ‘boccate d’ossigeno’ e non in forti cicli espansivi di consolidamento dei profitti, del risparmio e degli investimenti. Fermo restando che l’Italia non possa permettersi un robusto piano di investimenti pubblici, poiché ciò implicherebbe uno sforzo economico allucinante per riuscire a ottenere una crescita del prodotto interno lordo solamente dell’1%, anche il dogma della detassazione, insieme naturalmente a quello dell’austerità, risulta non del tutto corretto: serve a poco, poiché produce una rincorsa nella direzione sbagliata nei suoi termini generali, cioè quella di non riuscire a produrre nuova occupazione stabile. E allora? Che facciamo? Qual è la direzione più corretta da intraprendere? Poniamola così, con tutta calma e senza polemiche inutili: la disoccupazione prolungata non distrugge solo la produzione attuale, ma anche quella potenziale, erodendo il ‘capitale umano’ dell’esercito industriale di riserva (i disoccupati). Ciò significa, in buona sostanza, che ‘schiacciando’ la domanda di lavoro si finisce col comprimere la domanda stessa nel suo complesso, al fine di inseguire l’utopia di una crescita ‘orizzontale’ completamente priva di ogni capacità di selezione del settore, degli operatori o della categoria stessa di nuovi lavoratori in grado di trascinare come una locomotiva l’intero sistema economico. Non c’è solo l’utopia del ‘posto fisso’ da combattere - una ‘battaglia’ persa in partenza, se il sistema non è in grado di favorire alcuna forma di reale mobilità o di effettiva flessibilità occupazionale - bensì anche l’incapacità di scegliere e di decidere dell’offerta, cioè dell’apparato imprenditoriale, il quale si ritrova, con piena evidenza, nella condizione di non sapere quali ‘pesci’ andarsi a pigliare. Siamo perciò destinati a rimanere, ancora per qualche tempo, in uno stato di equilibrio ‘sottoccupazionale’. Almeno fino a quando non cambierà realmente la politica economica dell’intera Eurozona. Ciò può accadere solamente attraverso un’effettiva unificazione politica dell’Ue, in grado di produrre un supercoordinatore dell’Economia che possa decidere, in termini di ‘governance’, verso quali ‘nuove praterie’ dirigere il sistema dell’intera zona dell’Euro. Fino a quando l’Unione europea non riuscirà a produrre una propria limpida idea di politica economica sulla quale scommettere, difficilmente riusciremo, basandoci sulle sole forze dei singoli Stati membri, a portare il nostro sistema economico verso reali forme di competitività con quello asiatico o nordamericano. Non vi sono dubbi di alcun genere, intorno a ciò. L’Europa e il suo ‘sistema-misto’ pubblico/privato deve cominciare a ragionare da ‘superpotenza’ politica e giuocare la propria ‘scommessa’, puntando su se stessa e sulle proprie capacità produttive. E’ sostanzialmente questa la ‘scelta obbligata’ che il modello capitalistico del ‘vecchio continente’ è tenuto a compiere. Alternative altrettanto realistiche non ve ne sono. Anzi, non esistono proprio.



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carlo cadorna - frascati - Mail - mercoledi 26 giugno 2013 6.26
Condivido. Ma nel frattempo possiamo, attraverso l'adozione per legge dei costi standard negli appalti pubblici, recuperare 80 mld. ed investirli in opere pubbliche ad alto valore tecnologico(comunicazione, energia, trasporti).
Cristina - Milano - Mail - martedi 25 giugno 2013 17.1
Analisi lucidissima: è proprio così...
Massimo - Roma - Mail - martedi 25 giugno 2013 16.43
Senza dilungarmi in una analisi, mi dispiace per i filo-integral-liberisti, ma dato che, oramai siamo in un cul de sac, in cui nessuna scelta appare quella giusta, come lei giustamente dice, non si può però iniziare una politica di re-start dell'economia, senza puntare ad una economia sociale. Anche se, si eliminassero completamente le tasse, ora come ora, come asseriscono imprenditori culturalmente e politicamente onesti, cambierebbe molto poco, dato che la domanda di beni è al minimo, e se anche si percorresse questa strada, dopo pochi mesi, l'abbattimento di questi costi mobili, verrebbe riassorbito da una ripresa della concorrenza che andrebbe a far scendere i prezzi al dettaglio. Io credo che bisogna ripartire dal basso, aumentare la disponibilità economica del cittadino, con dei crediti sociali ad personam specialmente per chi non ha occupazione. Stampare moneta? A ruota libera no, ma sicuramente una parte da concordare con le forze di governo di altri paesi si. E' la politica che deve imporre le logiche alla BCE, e non viceversa! Una inflazione conseguente a ciò, andrebbe a dare ossigeno ai ceti poveri e bassi, per nulla deleterio per i medi, ma andrebbe ad intaccare i ceti straricchi, i quali, non si morirebbero certo di fame però! Il rigore e l'austerity.... devono valere solo per la popolazione che non deve far perdere potere alle banche?.... Spero proprio di no. Cosa succederà quando entro i prossimi 5 anni, gli ultimi pensionati che mantengono figli e nipoti, moriranno? Suicidi, stragi in famiglia con giustificazioni tipo.... "era depresso", o bande di predatori per le strade?


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