Susanna SchimpernaC’è stata un’epoca che ci ha chiesto di tacere. Questa ci chiede di denunciare. Ma al di là della previsione di conseguenze terribili, che nascono da vuoti statali e organizzativi, le donne vittime di violenza possono scegliere il silenzio decidendo di elaborare in assoluta solitudine offese e dolori troppo grandi per poter essere condivisi. “Non ero pronta a chiedermi perché mai non avessero reagito”, scrive Stefania Catallo. “Non ero pronta, credo che non lo sarò mai veramente, ad ascoltare racconti di violenza, di percosse, di minacce, di insulti continui; a vedere le cicatrici, mostrate come testimonianza di sofferenza”. Proprio questa la forza di Stefania: non essere indulgente con la propria rabbia, compiere uno sforzo grande per non permettere “all’io farei” di diventare un “si deve”. Lei ha scelto di accompagnare le donne che ascolta con delicatezza, rispettando i loro tempi, le loro personalità. Mai dando l’impressione di volerle sollecitare o controllare, ma restando sempre reperibile, vicina, nel caso ci fosse bisogno di uno sguardo o di un abbraccio. Infondere fiducia sufficiente per far uscire dal silenzio le donne picchiate, abusate, spaventate non è impresa facile. Si compie attraverso canali per lo più invisibili, piccoli gesti, coincidenze di cui non si è consapevoli. A volte la primissima chiacchierata è davvero soltanto la prima di molte altre, ma ci sono casi in cui il miracolo del racconto non si ripete: chi ha raccontato la propria storia superando il guado torna indietro, incomprensibilmente, lasciando dietro di sé preoccupazione, dubbi (avrà trovato le parole che avrebbe voluto sentire?), eppure, insieme, un po’ di speranza. Forse tornerà. E’ attesa. Va detta adesso una cosa, subito, a sgombrare il campo da ogni equivoco: il silenzio delle vittime è sempre innocente. Non parlare non è una colpa. Non dovremmo mai dimenticarlo noi che indaghiamo, ci interroghiamo, abbiamo la presunzione di spacciare per vere le nostre meditazioni su dinamiche psicologiche che, troppe volte, ci sono note solo attraverso i libri. Da quando hanno cominciato a parlare, le donne si sono mostrate coraggiose nell’analizzare e dichiarare i propri lati peggiori, le debolezze, i retaggi culturali che emotivamente non riuscivano a superare pur avendoli confrontati razionalmente. Hanno accettato di mettersi in discussione anche come vittime di violenze non psicologiche, o meglio non solo: si sono domandate cosa induca l’altro a massacrarle di botte, perché da un uomo violento si passi a un altro che si rivela identico se non peggiore, perché quel senso di colpa quasi si fosse responsabili, come mai anche quando non ci siano problemi economici non si scelga la rottura. La disistima di sé e la sensazione opprimente di essere diverse per difetto nascono prima, durante o dopo le violenze? Certo, è importante sapere. Perché sapere è sempre preferibile alla confusione dell’ignoranza, e soprattutto, in questo caso, possiamo pensare che conduca a una maggior sicurezza nelle proprie possibilità, e quindi a una ritrovata o forse addirittura inedita capacità di ridere, vivere, respirare in libertà. Ma non basta. Come sostiene Angela Azzaro, che da anni si occupa di violenza maschile sulle donne, è ora che l’accento cada sui responsabili e non più sulle vittime. Che gli uomini prendano la parola, si sentano chiamati in causa, si coinvolgano. E’ ovvio che non sono tutti picchiatori, violentatori e assassini: neppure noi donne siamo tutte picchiate, stuprate e assassinate, però ci sentiamo colpite tutte, ci interroghiamo tutte. Mi associo all’invito di Stefania Catallo a “rompere la catena del silenzio” e a “educare le nuove generazioni alla cultura della non violenza”. E’ una strada lunga, eppure già tracciata, è il “qui e ora”, è l’impegno costante a privilegiare la nostra parte migliore, a vedere nell’altra, nell’altro, non un mezzo o un nemico, ma quello che noi siamo. L’autosufficienza orgogliosa di chi dice “io non c’entro” costeggia pericolosamente il disprezzo e si traduce in fragilità. Una società sana non può prevedere l’indifferenza.




(prefazione al libro ‘Ecce Dominae!’ di Stefania Catallo, ed. UniversItalia)
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Alessandro Bertirototi - Villafranca in Lunigiana/Italia - Mail Web Site - sabato 1 settembre 2012 0.34
Carissima Susanna,

ti ringrazio autenticamente per questo articolo, per la sua efficacia e chiarezza disarmante, specialmente nella scelta delle parole e della sintassi. Mi permetto anche di darti del "tu", nella speranza che questo mio atto non offenda il tuo stile... Parlare di sintassi, di parole e di grammatica potrebbe sembrare irriverente, persino stupido, di fronte ai contenuti di quello che hai scritto. Invece no. Le parole sono cose reali, concrete con le quali costruiamo il mondo nel quale abitiamo, anche quando non è come vorremmo, proprio come nel caso delle donne che racconti. Hai ragione: il silenzio non è mai una colpa, mentre lo è, secondo me, il silenzio di colui che ascolta il dolore altrui, come in questo caso, e non lo racconta. Il dolore raccontato non è solo comunicazione per l'altro, ma è, secondo me, rispetto di quella colpa silenziosa che si ascolta. Silenzio, scrittura ed ascolto diventano così il luogo per riflettere su quanto siamo ancora lontani da una vera evoluzione dei sentimenti umani. Sino a quando ci saranno uomini, apparentemente maschi, che si comportano in questo modo, saremo lontani da anche la benchè minima forma di umanità. Non so quello che posso fare per te, ma resto a tua disposizione nella eventualità potessi essere utile. Alessandro Bertirotti.


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