Vittorio LussanaL’occasione del festival del cinema di Roma in corso in questi giorni rappresenta un buon pretesto per tornare a riflettere su un mondo, quello della nostra produzione artistica e culturale, in evidente stato di spaesamento e di angoscia. A parte il caso di Pupi Avati, la nostra produzione cinematografica stenta infatti a ritrovare una propria ‘via maestra’ nel proporre pellicole maggiormente sensibili verso l’approfondimento storico e scientifico, più attente a rovistare le movenze di fondo della nostra società, magari affrontando tematiche come, per esempio, quelle dell’immigrazione e della costruzione obbligatoria - checché ne pensino certi ‘zucconi’ della Lega Nord - di una moderna civiltà interetnica, basata su una concezione democratica di valorizzazione della diversità. Il cinema italiano deve riaprirsi con coraggio alle tematiche sociali nella consapevolezza che non verrà abbandonato a se stesso, che non sarà lasciato al proprio destino, che sarà sempre difeso dagli attacchi ingiustificati di quell’incultura nazionalpopolare la quale, obiettivamente, oltre alla ‘fuffa berlusconiana’ in politica, ha sinceramente ‘depistato’ tutti quanti noi con le sue ‘veline’ e le sue ‘starlette’, con le ‘pagliacciate mostruose’ e le ‘ballerine senza mutande’, con i filmetti insulsi e i ‘cinepanettoni industriali’, in cui la comicità stessa ha finito col venir rappresentata da maschere noiose, volgari, indisponenti, di basso profilo. La superficialità dei fratelli Vanzina, che con il loro, peraltro modesto, ‘Sapore di mare’ hanno voluto fotografare ‘staticamente’ il mito delle vacanze a Forte dei Marmi ‘dell’italietta’ post boom economico degli anni ’60 - mescolando indulgenza sui nostri caratteri più ‘cialtroneschi’ insieme a tanta, ma proprio tanta, ‘smielata nostalgia’ - ha fatto da ‘capofila’ nella devastazione e nell’impoverimento del nostro cinema. Bisognerebbe, invece, tornare a comprendere – come in un certo senso ha fatto, pur con i suoi modi e le sue infinite ‘fisime’ personali, l’ingegnoso Nanni Moretti – che la ‘settima arte’ può e deve svolgere una preziosa funzione di indagine e di analisi antropologica della nostra vita quotidiana. Il cinema deve tornare a rappresentare lo ‘specchio’ più fedele dei cambiamenti che avvengono in Europa e nel nostro Paese. La ‘commedia all’italiana’, in passato, ha saputo donare al pubblico spunti satirici e verità ‘squarcianti’, che hanno realmente illuminato le ordinarie vergogne di una cieca corsa tutta italiana verso un benessere grettamente materialistico. E voglio anche ricordare, in questa sede, come ‘Divorzio all’italiana’ di Pietro Germi, tramite una ‘scettica eleganza’ abbia saputo scherzare sull’assurdità di un codice penale che non puniva i ‘delitti d’onore’ del ‘maschio’ italiano, mentre ‘Una vita difficile’ di Dino Risi ha saputo affrontare di ‘petto’ il dramma di quegli italiani che avevano creduto negli ideali della Resistenza e che, poi, si sono visti travolti dalla ‘iattanza cafona’ dei tanti ‘neoricchi’. Sempre Dino Risi, ne ‘Il sorpasso’, ha saputo ritrarre, attraverso un ritmo filmico tutto ‘a singulti’, la ‘giornata tipo’ di uno dei tanti parassiti che raccolgono le briciole dei nuovi modi di vita imposti da una modernità vacua, canagliesca e, alla fin fine, amarissima. Purtroppo, in questo settore artistico - come in quello televisivo - le leggi del successo e della commercializzazione sono tuttavia riuscite a imporre la superficialità e l’involgarimento. Alcune pellicole di buona fattura hanno preteso di ‘intonacare’ la nostra ‘Storia–Patria’ diffondendo ideologie giustificazioniste e autoassolutorie: ‘La grande guerra’ di Mario Monicelli e ‘Tutti a casa’ di Luigi Comencini hanno presentato figure di italiani i cui tratti indolenti sono stati addebitati alla nostra tradizionale ‘arte di arrangiarsi’, mentre la satira ha spesso degenerato nel ‘macchiettismo’ e nella bonaria presa in giro – mi sto riferendo, in particolare, al film ‘Il vigile’ di Luigi Zampa – di costumi e modi di vivere accettati con eccessiva indulgenza. Fortunatamente, qualcuno a un certo punto si è accorto che certe nostre ‘istituzioni’ non tenevano più. E, con tocco assai delicato, il grande Luchino Visconti, in ‘Rocco e i suoi fratelli’, ha splendidamente fotografato una famiglia di immigrati la cui esigua manciata di valori morali finisce col venir letteralmente ‘bruciata’ dai labirinti della grande città, mentre il geniale e fantasioso Federico Fellini, ne ‘La dolce vita’, è stato uno dei pochi a raccontarci una Roma stordita e corrotta, dove ogni compostezza sprofonda quasi sempre in un paganesimo provinciale che celebra i propri riti goderecci senza nemmeno saper attingere a una ‘grandiosa malvagità’. Poi è giunta l’epoca del cinema ‘di denuncia civile’, dalla chiara impronta politica. Su tale versante, decisamente ‘accecanti’ sono stati i film di Francesco Rosi (‘Le mani sulla città’ e ‘Il caso Mattei’), addirittura ‘radiografici’ quelli di Elio Petri (‘A ciascuno il suo’ e ‘La classe operaia va in Paradiso’), dolorosamente poetici quelli di Pier Paolo Pasolini (‘Uccellacci e uccellini’ e ‘Mamma Roma’), mentre a rammentare che l’istituzione maggiormente priva di tenuta è proprio la famiglia ci hanno pensato Marco Bellocchio (‘I pugni in tasca’), il ‘crudo’ Salvatore Samperi (‘Grazie zia’) e il quasi ‘onirico’ Marco Ferreri (‘Dillinger è morto’), i quali hanno appuntato i propri ‘strali’ contro le atrocità del matrimonio, gli egoismi dei moderni rapporti di coppia e le ipocrisie del ‘familismo amorale’ degli italiani. In ogni caso, tranne queste eccezioni, in linea generale la nostra produzione cinematografica ha dato spesso l’impressione di intrattenere con la realtà italiana un rapporto sovrastato dalle bronzee leggi degli schematismi ideologici: da una parte si è riprodotta un’Italia arcaica, pervasa da forme di sfruttamento e di sopraffazione che lo sviluppo economico non è mai stato in grado di ‘intaccare’ o, quanto meno, di correggere; dall’altra, si sono rincorsi i volti di una borghesia concepita nel più ‘idealtipico’ dei modi, come un banale epifenomeno la cui ‘coscienza storica’, quando esiste, rappresenta solamente un ‘rivolo di spurgo’. E’ stato sostanzialmente questo il giudizio espresso sulla società italiana dal predominio comunista sulla nostra cultura. Ed è questo il motivo per cui tanti nostri giovani ‘Maestri’ si ritrovano, nel corso dell’attuale ‘lunga transizione’ italiana, culturalmente ‘in mezzo al guado’ tra onirismi anarcoidi e irrequietezze piccolo borghesi, completamente persi innanzi alla questione di non riuscire a ‘inquadrare’ un nuovo modello di società. Si tratta, utilizzando le sagge parole dell’amico Bobo Craxi, di un evidente “bisogno di un nuovo socialismo adatto ai tempi”. Ci vuol tanto a capirlo, oppure dobbiamo star qui a sorbirci le volgarità dell’onorevole Rosy Bindi? Giù dalle ‘brande’, cari registi italiani, poiché è assolutamente giunto il momento di affermare a chiare ‘note’ che tutti quanti, per pura pigrizia mentale, avete letteralmente messo in ‘quarantena’ il cosiddetto ‘sociale’ e che, oggi, siete vivamente pregati di ritirarlo fuori dal ‘frigorifero’. Voi siete una categoria di artisti che ha preteso di gettarsi ‘a capofitto’ nell’applicazione della teoria del materialismo storico alle arti e alle scienze, tentando di rompere il vostro ‘accerchiamento’ avvinghiandovi a una snobistica immagine di ‘intellettualità’ il più delle volte totalmente autoreferenziale. Per il cinema italiano è giunto il momento di spingersi oltre, di spiegare, magari anche ai nuovi cittadini stranieri giunti a lavorare nel nostro Paese, che gli italiani sono, storicamente e tradizionalmente, un popolo di emigranti, di operai, di impiegati miracolati dal ‘posto fisso’, di gente che il più delle volte non sa neanche dove andare a ‘sbattere la testa’, di presuntuosi arruffoni che pretendevano di sconfiggere gli inglesi col filo di ferro nel bel mezzo del Sahara. Dovete tornare a toccare, ve lo chiedo dal più profondo della mia personale disperazione civile, le ‘vive corde’ della poesia, il nostro bisogno di una nuova etica, l'esigenza di una grandiosa riforma intellettuale e morale. Il che significa tornare alla crudezza, ai ‘pugni’ nello stomaco, alla blasfemìa, se necessario, insomma a una forma di mobilitazione culturale e sociale che chiarisca agli italiani, con ‘lucida rabbia’, i loro pregi e i loro difetti, che dica la verità intorno a quei caratteri identitari necessari a rimettere veramente ‘in piedi’ la nostra gente e il nostro popolo. In un modo o in un altro.


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Angela - Catania - Mail - lunedi 31 ottobre 2011 18.25
Una nota piena di verità...
Cristina - Milano - Mail - lunedi 31 ottobre 2011 16.36
Bellissimo articolo. Dò ampiamente ragione all'autore. Molto interessante l'excursus cinematografico italiano, molto veritiero anche! Ci vuole uno scossone per riappropriarci della nostra identità, è vero, ma dove trovare l'ispirazionein questa landa desolante...? In noi stessi, forse...
Franca - Ciampino (Roma) - Mail - lunedi 31 ottobre 2011 16.22
Grande Lussana!!!
Viola - Roma - Mail - lunedi 31 ottobre 2011 16.11
bravo Vittorio... bellissimo articolo, molto lucido e ben dosato...mi è piaciuto soprattutto il termine "zucconi"...
Massimo Filipponi - Roma - Mail - lunedi 31 ottobre 2011 14.57
Tanto per essere polemico nel tema in oggetto, del resto è mia irrimediabile genetica, i films di Dino Risi, Monicelli, Scola erano uno spaccato tragicomico dell'Italia della crisi, poi del boom, poi delle diseguaglianze culturali ed economiche dei fatidici anni "...anta", ma anche se in maniera proprio tragicomica, erano vere e proprie didattiche di costume, magari amplificate, ma rientravano in una analisi sociale. Con l'avvento dei Vanzina o altri sergenti prezzolati, si è iniziato a dar vita poi a qualcosa che si può decisamente annoverare in una vera e propria pubblicità occulta, non tanto occulta poi: veicolare, dopo la seconda metà degli anni ottanta, un messaggio antisociale, individualista, far apparire "in" personaggi yuppies, denigrare la cultura sociale in favore dell'arrivista furbo, simpatico. I vari Greggio, Boldi, e "maschere" varie, erano più soldati di un messaggio che doveva penetrare all'interno degli spettatori, ed inculcarsi nella mente, per indurre proprio un viraggio di ciò che bisogna assurgere come modello. Da una cultura relista, post neorelista dei vari Risi, Monicelli, si è passato ad una cultura mediale, subliminale, didascalica, di messaggio da inculcare con strumenti di valore culturale artistico di qualità infima, vedi Vanzina, Neri Parenti, Genovese e poi, misteriosi sconosciuti, che hanno solo un ruolo di "capo-cameramen" con sceneggiature studiate a tavolino...
Roberto - Roma - Mail - domenica 30 ottobre 2011 11.30
LUSSANA IL MAGNIFICO!!! NON CI SONO PAROLE: UN EDITORIALE PERFETTO........


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