Vittorio LussanaIl filone culturale dedicato ai ‘serial killer’, ormai santificato da serie televisive come ‘Criminal minds’ o dalle diverse declinazioni dei telefilm ‘C. S. I.’, non è una moda degli ultimi decenni, anche se molti fatti della recente cronaca ci portano spesso a credere che alcuni efferati crimini siano figli di una società sempre più nevrotica, sottoposta a stimolazioni continue, subliminali, persuasive. In realtà, sotto il profilo strettamente editoriale, il genere ha un proprio capostipite letterario nel famosissimo libro del 1886 intitolato ‘Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde’, generato dalla fulgida fantasia dello scrittore scozzese Robert Louis Stevenson. Ciò a testimonianza del fatto che gli omicidi seriali non erano estranei alla realtà quotidiana già nel XIX secolo, per quanto oggi ci appaiano un tema di straordinaria modernità. Alcuni soggetti cinematografici facenti parte del cosiddetto genere ‘thrilling’, in particolar modo quelli ispirati proprio alla figura del criminale ‘seriale’, non sono affatto una novità di questi anni, come dimostrato dal capolavoro di Fritz Lang ‘M, il mostro di Dusseldorf’, datato 1931. Questa pellicola, in particolare, fu quella che fece da ‘apripista’ nell’esplorazione dell’orrore attraverso la macchina da presa. Il soggetto era ispirato a un reale fatto di cronaca relativo alle vicende di un mostruoso assassino di Dusseldorf, il quale amava trucidare delle bambine e berne il sangue. Dunque, è proprio l’attualità della nostra cronaca nera a ispirare libri e film, al fine di esorcizzare determinati avvenimenti o la nostra stessa paura per l’avvento di questi ‘nuovi mostri’. Ma come sono, nella vita reale, i serial killer? Per rispondere a un simile quesito ci viene in soccorso un altro film, ‘Copycat’ di Jon Amiel, del 1995, in cui un’ammaliante Sigourney Weawer, interpretando i panni di una psicologa, ci fornisce un ritratto esauriente di questa tipologia criminale: l’assassino seriale è quasi sempre una persona apparentemente normale, tra i 30 e i 40 anni, un tipo cordiale e distinto, da cui si accetterebbe tranquillamente un passaggio in auto. Sbagliando. E’ pertanto una concezione infondata, o quanto meno giornalisticamente ‘fossilizzata’, quella che vorrebbe disegnare la grandiosa malvagità di un criminale dandogli le sembianze di un ‘mostro’. Al contrario, il ‘lupo cattivo’ delle fiabe spesso somiglia al nostro vicino di casa. Il serial killer è sempre un uomo ‘normale’. Per scrivere ‘Psyco’, il romanzo che servì da ispirazione ad Alfred Hitchcock per il suo omonimo film del 1960, lo scrittore Robert Bloch si rifece a una vicenda ispirata alle allucinanti azioni di un omicida che si chiamava Ed Gein, un profanatore di tombe che riuscì a comporre dentro casa propria un macabro museo all’interno del quale, col tempo, aveva iniziato a portare anche i ‘contributi’ fisici delle proprie vittime, di cui aveva già divorato i corpi. Tutto ciò in una piccola località del Wisconsin di appena duemila abitanti dove nessuno, per anni, si era accorto di nulla. Dopo l’agghiacciante scoperta delle gesta spaventose di Ed Gein, proprio costui divenne il principale soggetto di libri e sceneggiature cinematografiche ispirate alla sua storia, da cui Hitchcock fece poi discendere la ‘bipolare’ figura di Norman Bates. L’apparente normalità che convive con una profonda disumanità è dunque l’aspetto che ha sempre condotto il cinema e la letteratura a considerare i ‘serial killer’ con molta attenzione, domandandosi e domandandoci se in essi non si nascondano le stesse pulsioni e i medesimi desideri che animano le persone cosiddette ‘normali’. Nei primi anni ’90 del XX secolo giunse perciò il momento del dottor Hannibal Lecter, magistralmente interpretato da un grandioso Anthony Hopkins, che ne ‘Il silenzio degli innocenti’ di Jonayhan Demme ci pose per la prima volta una serie di domande assolutamente lucide, intellegibili: “Quale bisogno soddisfa un omicida seriale? Egli desidera. E come cominciamo a desiderare? Desiderando ciò che vediamo ogni giorno”. Rimane pur vero che il desiderio, negli omicidi seriali, ha breve soddisfazione. Ma ciò solleva un altro aspetto, che incute maggior terrore e, al contempo, genera una curiosità ancora più forte: a uno sguardo esterno, determinati rituali sanguinari, consumati ossessivamente, mancano di un movente razionale, di una motivazione logica che possa spiegarli. E allora? Che cos’è che rende il desiderio così implacabile? E’ questa domanda ad aver stimolato l’interesse, negli ultimi anni, di molti specialisti: criminologi, psicologi, vittimologi e giornalisti. Sin dai tempi di ‘Jack lo squartatore’, le forze dell’ordine si sono sempre poste il problema di quale uomo potesse commettere certi scempi. Ed ecco come nacque la figura del ‘criminal profiling’,  ovvero di colui che, affiancando la polizia, si pone di fronte alla scena di un delitto e si chiede: “Cosa è successo? Che tipo di uomo può aver commesso tutto questo? Quali caratteristiche si possono attribuire a un simile soggetto”? In estrema sintesi, si tratta di comprendere le distinte forme del desiderio e di capire perché una persona voglia metterle in pratica. Un terreno scivoloso, soprattutto quando chi lo esplora corre il rischio di comprendere fin troppo bene le origini delle modalità di certi oscuri desideri. Esplorare gli abissi della coscienza può riservare brutte sorprese. Come dimostrato dal film ‘Manhunter’ di Michael Mann, del 1986, in cui per la prima volta il dottor Hannibal Lecter è apparso come un personaggio inquietante il quale, tuttavia, riusciva a guidare l’FBI verso i recessi della mente umana. Perché il confine tra la condizione di uomo normale e quella di ‘mostro’ è pericolosamente sottile.


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