Chiara ScattoneNel marzo scorso, il Senato ha approvato un decreto che impone a tutti i Consigli di amministrazione una partecipazione femminile pari al 30 per cento. Il testo, applaudito dal ministro delle Pari Opportunità come un fondamentale passo avanti verso la parità di genere, riapre il dibattito sulle quote rosa, croce e delizia da diversi anni negli ambienti femminili e non solo. La questione della presenza delle donne nel mondo del lavoro è un tema discusso da tempo ma che, soprattutto in questo periodo in cui la disoccupazione è alle stelle e il tasso delle persone inattive – coloro che hanno smesso di cercare un posto di lavoro – è salito al 38 per cento, riprende vigore e coraggio. I dati statistici parlano chiaro: le donne non riescono, nella maggior parte dei casi, a raggiungere un livello di retribuzione e di professionalità al pari dei colleghi uomini. Nel nostro Paese è ancora molto forte l’assioma donna uguale madre e famiglia, ma forse qualcosa sta cambiando. Le donne, oggi, stanno riacquistando la propria consapevolezza e si sta assistendo a un fenomeno di presa di coscienza, di ‘ribellione’ sociale. La manifestazione del 13 febbraio scorso, promossa dal comitato “Se non ora quando?”, ha dimostrato quanto le donne siano presenti e pronte a combattere per ottenere diritti e dignità che ancora non sono garantiti. Per quanto concerne l’occupazione femminile e il ruolo delle donne nell’economia, infatti, il nostro Paese non riesce ancora a raggiungere gli standard europei e presenta delle lentezze sistemiche difficili da superare. Ce ne parla Paola Profeta, docente all’Università Bocconi di Milano e collaboratrice de il Sole 24ore che, con la collega Alessandra Casarico, ha pubblicato ‘Donne in attesa’, edito da Egea.

Professoressa Profeta, il titolo del suo libro, ‘Donne in attesa’, è molto chiaro: le donne italiane sono in attesa, ma cosa attendono? Non certo un figlio, perché il tasso di fecondità è decisamente basso, forse un lavoro, dato il crescente tasso di disoccupazione, o forse un riconoscimento sociale, politico ed economico che stenta ad arrivare?

“Le donne italiane sono in attesa di parità, di trovare spazi di occupazione, di crescita professionale, di avere potere e ruoli decisionali nelle imprese, in politica, nella scienza, di veder riconosciuto nel mondo del lavoro il loro talento e gli investimenti fatti in istruzione. In Italia, il mercato del lavoro è caratterizzato ancora da forti disparità di genere, con tante donne che non lavorano e pochissime che raggiungono i vertici. Eppure, nell’istruzione queste disparità non esistono: oggi, in Italia, su 100 ragazzi che si laureano 60 sono ragazze. Ragazze che quando entrano nel mondo del lavoro ben presto si scontrano con problemi fino a quel momento non conosciuti: cercare un’occupazione e trovarsi a competere con i maschi in situazioni in cui, pur essendo più qualificate o preparate, partono svantaggiate; percorrere le tappe della carriera lavorando il doppio per ottenere la metà ed essere retribuite, a parità di qualifica, meno di un collega; conciliare maternità e vita professionale. Ecco, sono donne in attesa, ma non di bambini, bensì di vedere che la parità che sperimentano nell’istruzione diventi una realtà anche nel mondo del lavoro”.

Nel libro rappresentate molto bene la situazione italiana, i dati statistici che riportate espongono un quadro piuttosto desolante, l’occupazione femminile è pari al 45 per cento rispetto al target del 60 per cento imposto dall’agenda di Lisbona per i Paesi europei, secondo lei quali sono le cause di questo ritardo?
“Come per tutti i fenomeni complessi, non esiste un’unica spiegazione. Possiamo individuare tre principali elementi: familiare, istituzionale e culturale. L’elemento familiare fa riferimento alla divisione del lavoro all’interno della coppia, che in Italia si presenta molto sbilanciata, con le donne prevalentemente dedite al lavoro domestico e al lavoro di cura e gli uomini impegnati sul mercato. In altri termini, manca la condivisione tra uomini e donne nel lavoro domestico e nel lavoro di cura. Questa divisione asimmetrica del lavoro nella coppia interagisce con il comportamento delle imprese, innescando un meccanismo che si autoalimenta: se le imprese si aspettano che le donne dedichino più tempo degli uomini al lavoro domestico, in particolare in presenza di carichi familiari come bambini o anziani, hanno incentivo a pagarle meno dei loro colleghi maschi e a bloccare le loro carriere. A questo punto sarà davvero più conveniente, per le donne, lavorare a casa e dedicarsi alla cura, dovendo rinunciare a un guadagno inferiore a quello a cui rinuncerebbero i loro mariti, per i quali invece è più conveniente lavorare sul mercato. Così le aspettative delle imprese si realizzano e il meccanismo si perpetua. Una trappola difficile da spezzare. Questa divisione dei ruoli nella famiglia si può in realtà vedere come riflesso di un processo culturale più ampio, dipende da valori e norme sociali che tendono a riprodurla. Sono ancora tanti, troppi, i cittadini italiani certi che il lavoro della mamma faccia soffrire i bambini, soprattutto quelli piccoli (circa l’81% secondo i dati della World Value Survey, contro una media europea del 56%), nella convinzione che la presenza della mamma a casa sia essenziale per una famiglia stabile. Dati che vengono confermati anche dall’indagine Excelsior di Unioncamere: il 34,35% delle imprese italiane dichiara di preferire l’assunzione di uomini, solo il 17,18% preferisce una donna e il resto è indifferente. Se le imprese esprimessero una cultura di genere favorevole alle donne o almeno non avversa, avremmo più imprese indifferenti. Anche le istituzioni contribuiscono a determinare l’attesa. Mancano politiche attive e misure concrete per la conciliazione della vita personale e professionale. Per esempio mancano gli asili nido: meno di 13 bambini su 100 trovano posto in un asilo nido, pubblico o privato, un dato che scende ulteriormente se si considera il Sud. La spesa per famiglie è tra le più basse in Europa, pari solo a 1,36% del Pil (in Francia, per esempio supera il 3%)”.

Nel resto d’Europa, le donne riescono a essere al contempo madri e professioniste: perché in Italia questa flessibilità non si è ancora raggiunta? Se la prima causa dell’abbandono del lavoro è la nascita di un figlio e il tasso di natalità è tra i più bassi d’Europa, è possibile che questa motivazione sia talvolta la copertura di una convezione sociale secondo la quale se la donna lavora può provocare un danno al bambino e alla famiglia?
“Come dicevo prima, sicuramente c’è un elemento culturale molto forte, non solo nel ruolo della donna come madre, ma anche nell’assenza della condivisione. Bisogna tuttavia sottolineare che questi presunti danni della madre lavoratrice al suo piccolo non trovano riscontro negli studi. Come ricordiamo nel libro, i primi anni di vita del bambino sono essenziali per lo sviluppo delle sue abilità e un servizio di cura di qualità (per esempio un buon asilo nido) possono essere positivi per tale sviluppo. L’assenza della mamma nelle ore di lavoro, in presenza di cure di elevata qualità e con una certa presenza anche del padre, non può essere considerata dannosa. Nel libro inoltre stimiamo che la differenza di tempo dedicato a svolgere attività educative con il proprio bambino da una mamma che lavora e una che non lavora ammonta mediamente a solo circa 12 minuti al giorno, un tempo non così enorme da giustificare questi presunti danni”.

Certamente, la questione della insufficienza di asili nido e dei bassissimi investimenti operati dal governo in questi ultimi anni è preponderante e rappresenta una delle cause principali della disparità tra uomo e donna, ma se subentrasse anche una componente di carattere morale e tradizionale?
“La scarsità di asili nido e la bassa spesa per le famiglie nel nostro Paese sono un elemento importante per spiegare i nostri ritardi. Abbiamo un sistema di welfare nel suo complesso generoso, ma sbilanciato sulla protezione del capofamiglia, in cui gli altri membri della famiglia, le donne e i bambini, sono componenti marginali. Sicuramente, questa impostazione riflette una struttura antica della famiglia di tipo tradizionale, in cui solo il capofamiglia si dedicava al lavoro e provvedeva al mantenimento del nucleo familiare. Oggi, questa impostazione non è più sostenibile”.

Non ritiene che, talvolta, la presenza della Chiesa e le sue continue richieste per l’emanazione di politiche per la salvaguardia della famiglia possano aver condizionato sia le scelte governative, sia l’atteggiamento di alcune donne e alcuni uomini nei confronti del lavoro e della posizione femminile nella società?
“Come economista non credo che la Chiesa sia la vera responsabile dei nostri ritardi, perché altrimenti non riusciremmo a spiegare la forte eterogeneità che caratterizza il nostro Paese per tutti gli indicatori di parità di genere. In altri termini, al Sud il tasso di occupazione femminile (45,8% su media nazionale) scende al 30% circa, mentre al Nord è vicino al 57%. Non credo con ciò che si possa dire che il Sud è più cattolico o più influenzato dalla Chiesa del Nord. Piuttosto, bisogna considerare che all’interno del pensiero cattolico ci sono visioni diverse su cosa significa salvaguardare la famiglia e alcune posizioni molto tradizionali non aiutano. Personalmente, però, ho notato molto interesse anche da parte di alcune associazioni e riviste cattoliche nei confronti dei temi del libro, quindi non credo che si possa generalizzare”.

Quote rosa sì, quote rosa no: il dibattito è serrato. Per i sostenitori del ‘no’ la presenza delle quote rosa rappresenta un’ulteriore discriminazione di genere, una conferma della diseguaglianza tra uomo e donna. E se invece le quote rosa fossero lo strumento più adatto per ‘l’emancipazione femminile’ del futuro?
“Come sostengo da tempo, io sono favorevole alle ‘quote rosa’ come misura temporanea, che si giustifica come elemento di rottura del ‘monopolio’ maschile nel quale viviamo. In altri termini, ci sono solo uomini ai posti di comando e non lasceranno spazio alle donne se non con una legge. Del resto, anche in Norvegia, un Paese culturalmente molto più avanti sui temi della parità rispetto all’Italia, sono state necessarie le quote di rappresentanza di genere per avvicinarsi alla parità. In Italia, le donne ‘brave’, pronte a prendere il comando, non mancano (varie associazioni stanno perfino raccogliendo centinaia di curriculum), basta dare loro la possibilità di mettersi in gioco e competere ad armi pari con gli uomini. Sarà poi il mercato a selezionare le più adatte”.

Un’ultima domanda: nel vostro studio avete sottolineato che 100mila donne produrrebbero lo 0,28 per cento del PIL nazionale. Se moltiplicassimo la proporzione per due o tre volte, 300mila donne farebbero salire il Pil dello 0,84 per cento. Pertanto, l’assenza della donna dal mondo del lavoro rappresenta la perdita di una risorsa realmente utile per l’economia del Paese, soprattutto in questo periodo di crisi: perché, allora, il Governo non ha preso seri provvedimenti in materia? In questo calcolo non manca forse un elemento essenziale, la componente personale, secondo la quale non tutte le donne si mostrano uguali sul posto di lavoro?
“Il calcolo si basa sulla produttività media attuale, cioè su quanto mediamente producono le donne nel mondo del lavoro. Ovviamente, ci sono donne più o meno produttive e l’elemento personale è importante. Ma questo vale già adesso e, nel nostro esercizio, semplicemente imputiamo alle donne che si inserirebbero nel mondo del lavoro le caratteristiche di quelle attuali. L’attesa non fa bene all’Italia. Una maggior presenza femminile nell’economia comporterebbe numerosi vantaggi: più donne al lavoro garantirebbero un maggiore Pil e una crescita economica più robusta, non solo perché il numero di lavoratori aumenterebbe, ma anche per il vantaggio che si ottiene sfruttando la produttività e le competenze femminili, certamente non inferiori a quelle maschili. Più lavoro femminile assicurerebbe anche un maggior benessere per le famiglie: quando i redditi in famiglia sono due, la qualità della vita migliora e si è più preparati ad affrontare i rischi familiari e occupazionali, crescenti nella nostra società. Un Paese come l’Italia, che cresce pochissimo, non può non rendersi conto che la risorsa lavoro femminile, del tutto sottoutilizzata, può essere la carta vincente da giocare in questo momento. Questa prospettiva, che possiamo definire economica, sta finalmente decollando, ma ci vuole un po’ di tempo. Le pari opportunità sono state collocate per anni nell’ambito dei discorsi dei ‘diritti’ delle donne (il 50% della popolazione), ambito peraltro molto importante, ma non si tratta solo di diritti, bensì di opportunità economiche. Dobbiamo ripartire proprio da qui: le pari opportunità sono un buon investimento non solo per le donne, ma per l’intero Paese”.




(intervista tratta dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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