Vittorio LussanaSino alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, il nostro Paese ha vissuto una lunga fase di espansione economica. Ma in termini strettamente quantitativi non si è mai potuto parlare di un vero e proprio ‘boom’. Sviluppo e disponibilità occupazionale hanno subito semplicemente un’accelerazione niente affatto clamorosa che ha manifestato una serie di fenomeni i quali hanno cambiato da capo a fondo le fattezze dell’Italia: imponenti migrazioni da sud a nord; una forte intensificazione della combattività operaia in ragione dell’assottigliarsi di quello che Karl Marx amava definire “esercito industriale di riserva” (i disoccupati); una progressione costante dei salari; un mutamento della composizione merceologica della curva dell’offerta a vantaggio dei mezzi di trasporto privati e degli elettrodomestici; una forte impennata dei consumi voluttuari. Benessere e agiatezza per tutti, dunque? Non esattamente, poiché ogni genere di sviluppo economico sganciato da reali forme di progresso socioculturale porta con sé una serie di nuovi problemi, di nuove fratture, di imprevedibili contraccolpi, oppure genera bisogni che un sistema autoregolato, per non dire ‘anarchico’, difficilmente riesce a esaudire (ad esempio, le domande aggiuntive di nuove case, nuovi ospedali e nuove scuole) oppure ancora cela al proprio interno smottamenti e implosioni (un forte calo della disoccupazione che, a sua volta, genera un forte aumento dell’inoccupazione). Iniziando da quest’ultimo punto, occorre infatti osservare come il raggiungimento della piena occupazione dei primi anni ’60 del secolo scorso fu tale solamente ‘sulla carta’, poiché le misurazioni eseguite a quei tempi vennero riferite al numero di persone materialmente presenti sul mercato del lavoro, mentre il tasso di attività - o saggio di partecipazione – vale a dire il rapporto fra gli occupati e la popolazione compresa nelle classi di età tra i 14 e i 65 anni, lungo tutto il corso di quel decennio crollò al 55%. Di una simile singolarità sono state escogitate spiegazioni svariate e distinte: constatando che fra il 1959 e il 1968 la popolazione italiana era cresciuta di 4 milioni e 200 mila unità, l’economista agrario Giuseppe De Meo calcolò un aumento potenziale della mano d’opera attiva di 1 milione e 451 mila unità: 965 mila uomini e 468 mila donne. Tuttavia, tra i primi, solamente 53 mila adulti avevano compiuto il loro ingresso tra le forze di lavoro effettive, mentre 616 mila persone erano studenti delle scuole medie superiori o universitari, 230 mila i titolari di pensioni di guerra o di invalidità, 66 mila i militari, i religiosi, gli inabili e i detenuti. Inoltre, la gran parte delle donne andava a ingrossare la schiera delle inoccupate (510 mila studentesse, 805 mila casalinghe, 47 mila pensionate precoci). Alla luce di simili dati, De Meo concluse, un po’ troppo ottimisticamente, che il tasso di ‘assenza’ dal mercato del lavoro dipendesse quasi sempre da motivazioni di natura ‘volontaria’, conseguenti al forte aumento dei livelli di reddito. Invece derivavano: a) dalla ‘liberazione’ di circa un milione di donne che, fino ad allora, avevano accudito occasionalmente all’agricoltura; b) dall’abbassamento dell’età di collocazione a riposo; c) dal regime più favorevole delle indennità di quiescenza; d) dall’avvento della scolarità di massa. Oltre a ciò, De Meo aveva trascurato alcuni fattori ‘contestuali’ di vera e propria dissuasione all’entrata nel mercato del lavoro, come ad esempio la grave inefficienza dei servizi pubblici, che ha sempre reso difficoltoso il semplice spostamento tra i luoghi di attività e le abitazioni, oppure la pesante sottrazione di mano d’opera provocata dall’emigrazione ‘esterna’ versa Svizzera, Belgio e Germania, un fenomeno che toccò l’apice di un milione di emigranti complessivi nel 1968. Un’ulteriore obiezione alla tesi di De Meo, ovvero quella di una disoccupazione sostanzialmente volontaria, si evince dalla disaggregazione su scala regionale dei suoi stessi dati relativi ai tassi di attività, a cui corrisponde un saggio di partecipazione che declina in una funzione direttamente – e non inversamente – proporzionale ai livelli di reddito. In pratica, in Italia è sempre esistita una componente ‘primaria’ del mercato dell’occupazione che non subisce alcuna influenza dall’andamento ciclico della domanda globale, congiunta a una componente ‘secondaria’ – formata da lavoratori ‘scoraggiati’ o ‘addizionali’ – che invece si mobilita solamente quando la situazione congiunturale diviene buona. Un’argomentazione del genere presuppone, naturalmente, una cronica scarsità di investimenti da parte delle classi imprenditoriali italiane, una caratteristica comprovata pienamente dall’economista Marcello De Cecco il quale, richiamandosi alla teoria ‘ricardiana’ della rendita, è riuscito a dimostrare che, a un’attenta analisi dei tassi specifici di attività, i lavoratori nel ‘fiore’ dell’età non sono mai stati neppure sfiorati dalla flessione del saggio di partecipazione, quelli tra i 30 e i 39 anni lo sono minimamente, quelli tra i 40 e i 49 anni poco più che sensibilmente. In pratica, coloro che vengono regolarmente espulsi dal ‘parco’ della forza-lavoro o che proprio non riescono a entrarvi sono, da sempre, soprattutto i giovani tra i 14 e i 21 anni di età, gli attempati tra i 60 e i 64 anni e quasi tutte le donne. Dal quadro appena esposto emergono alcuni indici tecnico-finanziari di ‘refrattarietà’ connessi a una domanda di lavoro tradizionalmente debole e assai selettiva rispetto alla quale non sono mai esistite, in Italia, forze politiche o sindacali in grado di riassestare questi ‘benedetti’ tassi di partecipazione all’attività lavorativa: il ritiro delle donne dalla compravendita di capitale umano è sempre stato, per esempio, il risultato di un’espulsione ‘soffice’, non di una ‘non richiesta’ o di una richiesta insufficiente, poiché la bancarotta demografica della nostra agricoltura ha fatto scomparire una serie di prestazioni saltuarie che non rimanevano confinate nelle aziende domestiche e implicavano una seppur minima mobilità. Analogamente, il caotico assalto all’istruzione, anziché derivare da un adeguamento alle nuove esigenze del nostro apparato produttivo, si è sempre configurato come un effetto – e non come una causa – dell’inoccupazione giovanile, che ha trasformato le nostre scuole e le nostre università in gigantesche aree di parcheggio. Del ragionamento di De Cecco, il sociologo Massimo Paci ne condivise la parte che atteneva alla struttura della domanda urbano-industriale. Dunque, decise di completarla attraverso un proprio bagaglio di studi raccolti in Lombardia, dal quale era lecito dedurre che la nuova forza-lavoro ‘immigrata’ dal Mezzogiorno avesse inciso ben più in profondità di quanto non si fosse pensato, poiché questa non è andata solamente a occupare posti addizionali creati nelle industrie del nord rispetto alla forza di lavoro locale, bensì era riuscita, in qualche modo, a comprimere l’offerta di lavoro stessa persuadendo una certa quota della popolazione attiva ‘stanziale’ a uscire dal mercato o a dissuaderla dall’entrarvi. Paci, peraltro, riteneva che il nostro sistema economico possedesse capacità di autocorrezione e di aggiustamento. Tant’è che, secondo lui, in Italia esisterebbero almeno tre distinti mercati del lavoro - quello operaio, quello intellettuale e quello marginale - in cui gli ultimi due accolgono la mano d’opera respinta dal primo assicurandole una retribuzione sostanzialmente equivalente, se non in termini di entità del salario, almeno in termini di minor costo della vita. Sia come sia, dando per accertato uno squilibrio negativo sostanzialmente irrimediabile fra domanda e offerta di lavoro, diviene gioco forza naturale concludere come la forte diminuzione del tasso di attività abbia sostanzialmente rafforzato, già sul finire degli anni ’60, l’istituto della famiglia ‘seminucleare’, ovvero quella in cui un solo membro percepisce regolarmente uno stipendio mentre gli altri componenti o vivono a suo carico, oppure concorrono al bilancio familiare con sussidi pensionistici o brevi ingaggi a termine e ‘in nero’. Tutto ciò ha finito col ricadere pesantemente sulla morfologia di quella speciale variante del welfare state che è sempre stato l’assistenzialismo italiano, a norma del quale la mano pubblica, anziché erogare servizi collettivi creando sane opportunità di impiego, ha invece cercato di consolidare l’occupazione fissa impegnando mezzi ingenti nella sicurezza sociale, oppure di rilanciare gli investimenti finanziari accollandosi una parte degli aggravi - rappresentati appunto dal costo del lavoro - mediante politiche di esenzioni tributarie nelle aree depresse, oppure ancora attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali. La famiglia ‘miracolata’ ha così sancito la fine della civiltà del patrimonio e l’inizio di quella del consumo. Ciò non tanto perché il possesso di ricchezze mobiliari o immobiliari da trasmettere in eredità non rappresentassero un segno tangibile di distinzione, quanto perché la delega del rischio alla pubblica amministrazione, che ha garantito la stabilità del potere d’acquisto con una legislazione sociale favorevole o con provvedimenti antinflazionistici, ha incitato tutti quanti a forme di spesa indirizzate verso beni secondari più o meno durevoli. E questo in quanto il volume dei guadagni non è mai praticamente bastato a far accumulare risparmi o proprietà a basso quoziente di remunerazione, mentre era più che sufficiente ad assecondare l’acquisto di generi voluttuari, caratteristica che da sempre contraddistingue i Paesi usciti da poco dall’arretratezza. In sostanza, non è la scarsità di mano d’opera a basso costo il vero problema del nostro mercato del lavoro, bensì il fatto che esso è rimasto sostanzialmente strutturato sulla famiglia ‘monoreddituale’, ovvero su un modello ormai obsoleto, rigido, ingessato, incapace di ‘puntare’ sulle giovani generazioni, poiché nessuno è in grado di garantire nient’altro che forme di occupazione fortemente parziali, instabili, precarie. Sostenere che la famiglia sia ancora la pietra angolare della società, mentre il sistema produttivo preso nel suo complesso è ormai pienamente indirizzato verso i bisogni del singolo individuo analizzato di per sé, significa semplicemente il dover prendere atto che i destini del Paese sono stati messi nelle mani di un ceto politico di deficienti che vorrebbero continuare a trattare e a far vivere come tali tutti gli italiani.




Presidente dell'associazione culturale 'Phoenix'
Direttore responsabile delle riviste 'Periodico italiano magazine' e 'Confronto Italia'
(articolo tratto dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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