Ilaria CordìIl patriottismo italiano ormai è morto, non possiamo negarlo. Ci si sente italiani solo quando ascoltiamo l’inno di Mameli poco prima delle partite di calcio. Da brevi indagini emerge che la maggior parte della popolazione, soprattutto i giovani, non sa nemmeno quando è avvenuta l’unità del nostro Paese. Meno male che esistono i giornali o le televisioni, che ci ricordano che il 17 marzo del corrente anno si festeggiano i 150 anni dell’unità d’Italia; e meno male che esiste Benigni, che ci spiega cosa veramente significa il nostro inno, che ci chiarisce come la parola “coorte” si scriva e pronunci con due “o” e non con una, che ci ha fatto scoprire che il suo testo non è composto da due sole strofe, ma da cinque. Alla luce di tutto ciò, abbiamo ancora questa faccia tosta di considerarci Italiani? L’Italia non è solo il Paese del bel mangiare e del bel vestire, non è solo “pizza e mandolino” come ci considerano all’estero, ma una nazione sorta grazie a delle tradizioni che ormai si sono perdute, o che molti devono ancora conoscere. Basta sfogliare un po’ le rassegne stampa per vedere come il caro italiano riesce a dividersi su una festa che dovrebbe invece unire: festa nazionale sì, festa nazionale no. Ecco il grande problema che affligge la politica, in questi giorni. La Lega si oppone: Berlusconi ritiene che “valga la pena festeggiare” e Napolitano che cerca di tener unite, almeno in quel giorno, le varie fazioni. Ecco com’è l’italiano: riesce a protestare per una festa che dovrebbe onorare il ‘belpaese’. Non a caso, 150 anni fa, Massimo D’Azeglio disse: “Ora che abbiamo fatto l’Italia dobbiamo fare gli Italiani”. Ma 150 anni dopo, gli italiani ancora non sono stati fatti.  E stupisce come gli Stati a noi confinanti e adiacenti siano fieri di far parte del proprio popolo e della propria nazione. Noi, invece, rimaniamo amareggiati. E lo dimostra il fatto, che nel momento in cui ci chiedono di dove siamo tendiamo maggiormente a riconoscerci nella nostra città.

“Piangi, che ben hai donde, Italia mia, le genti a vincer nata e nella fausta sorte e nella ria. Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive, mai non potrebbe il pianto adeguarsi al tuo danno e allo scorno che fosti donna. Or sei povera ancella. Chi di te parla o scrive che, rimembrando il tuo passato vanto, non dica: già, fu grande, or non è quella? Perché? Perché? Dov'è la forza antica? Dove l'armi e il valore e la costanza? Chi ti discinse il brando? Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica o qual tanta possanza valse a spogliarti il manto e l'auree bende? Come cadesti o quando da tanta altezza in così basso loco”?

Scriveva così Giacomo Leopardi nel 1818, ricordando i dolori che il Paese doveva subire in quel periodo, rimembrandolo sotto la grandezza romana. E forse non siamo così lontani da quel 1818, dove l’Italia era una povera ancella abbandonata da quegli eroi che promisero di morire per lei. Ma dimentichiamoci tutto questo, gettiamocelo alle spalle come di consueto. E prepariamoci a festeggiare questo disincantato 17 marzo.


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patrizia - genova - Mail - martedi 1 marzo 2011 20.39
è stupendo vedere una giovane ragazza parlare così saggiamente. L'articolo è molto interessante e ricco di spunti storici. La parte della poesia di Leopardi è un tocco eccelso.
Peccato che queste parole nn vengano diffuse in modo più ampio. Possiamo ancora avere speranza nella nostra gioventù!!!!!!
Complimenti alla redazione per aver una persona così che scrive su questo giornale on line. COMPLIMENTI ILARIA continua così


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