Chiara Scattone

È possibile leggere e comprenderela struttura e i rapporti che legano gli individui in uno stesso gruppo, studiando ed interpretando i rapporti economici che questi intrecciano gli uni con gli altri. Le stesse società contemporanee, come quelle nei secoli passati, possono essere comprese osservando i legami economici che all’interno di esse gli individui intrecciano.Cercando con un grande sforzo di alienarsi dal nostro mondo occidentale e dalla nostra comunità, probabilmente è possibile interpretare la crisi finanziaria globale che sta affliggendo un po’ tutto il mondo (sovra)sviluppato. Operazione non certo semplicissima all’apparenza, ma certamente, come qualcuno ha già ampliamente ed esaustivamente descritto meglio di me, la crisi di questi mesi non è esclusivamente una crisi finanziaria: è il disfacimento dei modelli sociali che nel corso del secolo scorso si sono costituiti nel mondo occidentale (e non solo). L’occidente come principale interprete e responsabile della caduta nell’abisso della crisi e della povertà, che oggi sta tornando come non si vedeva dal secondo dopoguerra (con notevoli differenze politiche e con un sentimento comune ben diverso), non è un paradosso. Il Papa, come anche molti altri intellettuali, ha gridato alla crisi di valori e di morale, alla decadenza neocontemporanea dei costumi e alla mollezza dello spirito dei popoli occidentali. Ed anch’egli, oggi, guarda all’Islam. Anzi, a dire il vero, il Pontefice ha riscoperto la religione islamica (parzialmente, perché non vi è salvezza se non nella totale accettazione della croce di Gesù, come una volta ho sentito pronunciare da un noto sacerdote a proposito dello scontro in Palestina) e, anche dalle colonne del suo giornale, autorevoli economisti hanno lanciato una proposta: la finanza islamica ci salverà. Probabilmente prima di parlare di salvezza sarebbe bene specificare che l’idea di finanza islamica non è un monolite che si può afferrare e trasferire nei Paesi occidentali in crisi, aspettandosi poi che si compia il miracolo della guarigione. La finanza islamica non è una medicina come l’aspirina, che si prende quando si ha il mal di testa e in pochi minuti fa effetto. L’aggettivo islamico (che nella lingua italiana è aggettivo e non sostantivo, come molti credono, indicando così anche tutti coloro che professano l’Islam, che nella lingua di Dante sono indicati con il termine di origine araba “musulmani”) non è semplicemente un modo più gentile ed esotico per parlare di finanza, ma la connotazione precisa epuntuale di un sistema di valori che nulla hanno a che vedere con l’idea che oggi noi tutti occidentali, europei e non, abbiamo dell’Islam e dei musulmani. La finanza islamica non è Dubai, non è l’immensa ricchezza dei Paesi del Golfo, non è lo scintillio e lo sfarzo degli sceicchi con la ‘djellaba’ bianca e la ‘kefiah’ in testa. La finanza islamica è una struttura, passatemi il termine, che si basa su elementi storici, filosofici, religiosi, etici, morali, teologici, politici ed economici (ovviamente) che si sono venuti costituendo nel corso di secoli, da quando cioè, nel VII secolo dopo Cristo, il profeta Muhammad ha ricevuto la sua prima rivelazione dall’Arcangelo Gabriele. La finanza islamica, che a mio avviso sarebbe più corretto definire economia islamica, prende forza dalle regole, dai principi e dalle norme previste dal diritto musulmano classico, ovvero dalle fonti classiche del diritto: il Corano, la Sunna, l’ijma (il consensus populi) e il qiyas (l’analogia). L’economia islamica è l’Islam nel suo complesso. E, azzardo ancor di più, lo stesso Corano può essere interpretato come un testo di economia (non mi dilungherò suquest’affermazione rimandando ad altra sede le discussioni e gli approfondimenti già da me effettuati su tale argomento). Il Corano, il testo sacro per tutti i musulmani, racchiude e raccoglie tutti i principi cardine sui quali si basa l’economia islamica, primo fra tutti il divieto di usura o ribà, che letteralmente in arabo indica un accrescimento o, più specificatamente, l’indebito accrescimento a scapito di qualcun altro. Il concetto di fondo dal quale deriva tale divieto (non oscuro all’ebraismo e al cristianesimo, basti pensare al notissimo passo del Vangelo di Luca “mutuum date nihil inde sperantes”) scaturisce dalla necessità di fondare una comunità (perché la prima grande rivoluzione introdotta da Muhammad nella penisola arabica fu la costituzione di una comunità fondata sulla comune appartenenza religiosa e non più sui legami familiari e tribali) equa, all’interno della quale impiantare regole sociali di redistribuzione delle ricchezze. Di certo, Muhammad non ha mai pronunciato l’espressione “redistribuzione delle ricchezze”. Il profeta, infatti, non era certo un esperto di economia e finanza, ma la sua volontà (e quella di Dio tramite il Suo Messaggero) è sempre stata chiara: creare un circolo virtuoso in cui le ricchezze e il benessere fluissero in maniera uniforme a tutti i membri della comunità, al fine di non escludere nessuno dall’obiettivo primario di indipendenza economica. A tal scopo, il sistema religioso islamico ha istituito regole e norme precise e rigorose: uno dei pilastri della religione (o arkan al-islam) è la zakat, o elemosina rituale (di natura obbligatoria per tutti i fedeli che possiedono dei beni mobili e/o immobili), la cui destinazione è prevista dal Corano e dalla Sunna, che ne indicano i beneficiari in un ordine ben preciso e la cui funzione è proprio quella di dare un sostegno, un aiuto economico, a chi non possiede i mezzi per essere autosufficiente. Ma la zakat non è il solo elemento di sostegno previsto dalle norme islamiche: esistono differenti forme di elemosina (come la sadaqa, ad esempio) e diversi insegnamenti profetici che indicano i principi e i sentimenti che devono necessariamente essere alla base di una comunità, della società islamica. Sono principi modernissimi, se pensiamo all’attuales ituazione economica, i quali prevedono l’impostazione di una società su basi solidaristiche e, conseguentemente, si portano dietro tutto quell’insieme di aspetti etico - morali che tanto, oggi, vengono reclamati e decantati. Etica e morale, in questo contesto, islamiche, ma che a mio avviso potrebbero essere connotate da un qualsivoglia aggettivo, non esclusivamente religioso. In ogni caso, se si vuole parlare di economia islamica, quella connotazione religiosa specifica non può essere svuotata dal suo valore intrinseco: economia islamica significa certamente un’economia basata sul divieto di usura, sull’elemosina rituale, sul concetto di redistribuzione delle ricchezze e, dunque, di compartecipazione dei rischi, dei benefici e delle eventuali perdite, di una solidarietà sociale il cui fine ultimo sia quello di incoraggiare l’attività economica eimprenditoriale e di dare gli strumenti necessari per raggiungere un’autonomia e un’indipendenza economica. Economia islamica significa, insomma, rispetto delle norme sciaraitiche. L’occidente è così certo e convinto di voler introdurre nel proprio ordinamento economico e finanziario (laico) aspetti così marcatamente intrisi di religiosità? Al contrario, personalmente ritengo che invece di rincorrere la chimera della finanza islamica quale unica cura per i malesseri occidentali, sarebbe più opportuno ci si facesse tutti un esame di coscienza, cercando di prendere atto dei reali motivi di questa crisi, la quale discende, prima di tutto, da una fortissima crisi di valori, non religiosi, né cristiani (come vorrebbe il Papa) né di qualsivoglia altra religione: si tratta di una crisi di valori sociali, umani, etici, morali che non si possono ascrivere ad alcuna tendenza religiosa o politica. I concetti della finanzai slamica sono certamente ‘rivoluzionari’ per il mondo occidentale. Così come è certamente vero che le banche islamiche oggi siano i soli istituti di credito a non avere crisi di liquidità o di altro genere e che essi vivano, al contrario dei nostri, un momento molto florido e prosperoso. E’ altrettanto vero che l’introduzione di sistemi alternativi di finanza come quello proposto dal mondo arabo - islamico, possano rappresentare un vantaggio, sia per il mondo della finanza, sia per la società nel suo complesso. Ma ciò non può essere il solo mezzo per superare la crisi. Certo, guardiamo pure al mondo arabo - islamico come nostro vicino e cugino, che tanto ha dato alla nostra civiltà (come la scienza, la medicina, la matematica, la filosofia, l’astronomia), ma analizziamolo nella sua complessità e non limitandoci, da bravi colonizzatori, solamente a ciò che più ci interessa per i nostri profitti e i nostri vantaggi. Non comportiamoci, come sempre abbiamo fatto nella storia noi occidentali - e noi europei in particolare - da ingordi divoratori di innovazioni e di scoperte, di vantaggi e di profitti, ma cerchiamo, per una volta almeno, di imparare e di apprendere dai nostri vicini musulmani il vero significato della parola solidarietà sociale, del concetto di redistribuzione delle ricchezze, di etica nelle tecniche bancarie e finanziarie. Smettiamola con il tentativo di accumulare beni solo per il piacere di farlo o di fare soldi con i soldi (come è stato fatto mediante le rischiosissime operazioni effettuate con i derivati). Il benessere economico è certamente un obiettivo comune a tutti gli individui di ogni società, ma la ricerca spasmodica ed egoistica della ricchezza non può divenire l’unico obiettivo: lo scopo di fondo deve essere quello di ricreare un equilibrio sociale ed economico in cui ciascun individuo possa avere accesso al credito e all’iniziativa imprenditoriale, perché solo così eviteremo di guardare attoniti la disperazione di tante persone comuni che si sentono talmente sconfitti dal sistema fino a reagire con esplosioni di violenza che non gli appartengono.


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roberto - roma - Mail - venerdi 22 gennaio 2016 3.0
Leggo solo ora il Suo articolo e quindi questo commento è molto tardivo. Obietto che i precetti religiosi islamici, così "sistematizzati", sono indubbiamente meritevoli di grande apprezzamento. Tuttavia, non hanno evitato, nel passato come ora, la sussistenza di disparità economico-sociali, l'accumulo di ricchezze, l'impiego del denaro per produrre denaro, seppure ad esempio con l'escamotage ben noto del far passare per "canone di affitto su un bene", acquistato dal finanziatore per conto dell'utilizzatore, quello che in realtà è un mutuo a favore dell'utilizzatore per l'acquisto del bene. Insomma, il "profumo dei soldi" vince anche sulle più nobili ed ispirate "parole". Peraltro, anche Comunione e Liberazione, così "vicina a Cristo", è molto attenta agli "affari terreni", ovviamente sempre per diffondere ed attuare opere di bene... E non si contano le le relazioni congresuali da me ascoltate sull' "etica degli affari", in cui i richiami al Vangelo erano posti all'inizio ed alla fine. Orbene, nella pratica islamica, un "buon musulmano" (impresa o privato) si astiene o no dall'acquistare all'asta a prezzo conveniente la casa di un debitore insolvente non per sua colpa (classico: la vedova con prole)? E se si astiene, è perché sente che la cosa sarebbe "moralmente ripugnante" (come dovrebbe essere per un buon cristiano) o perché teme il giudizio dell'imam o della comunità?
L'assumere come guida "vincolante", nell'economia, i precetti religiosi (siano essi cristiani o islamici: non mi pare vi sia grande differenza), all'insegna della pietà, della misericordia, della cooperazione, dell'uguaglianza ecc. è un'ottima cosa, ma non perché lo dice il papa, gesù cristo o maometto, ma perché alla "lunga rende tutti più ricchi" e si vive meglio e più in pace. Ho l'impressione che, nella società islamica, gli aspetti positivi dell'etica economica tipica della religione implichi - secondo il noto brocardo "chi compra i fichi si porta a casa anche il canestro" - l'accettazione, l'obbedienza, la sottomissione a tutto il "canestro" di precetti, regole, visione della vita, interpretazione della storia, fornito dall'autorità religiosa. Diciamo, un equivalente - forse anche più cogente - dello Stato della Chiesa tramontato solo poco più di un secolo fa. E nel caso dell'islam, il "canestro" comprende aspetti ormai per noi inaccettabili, ivi compresa la supremazia di una religione o di un "dio" su altri. Quello che lamento, insomma, è che non si riesca a definire una morale ed un'etica "laica", che comprenda quegli stessi "valori" in quanto utili di per sé, non in quanto comandati da qualcuno con la barba o con i chiodi nelle mani. Sono quei "valori", sono perfettamente d'accordo con Lei, che potrebbero "salvare il mondo". Ma per ottenere - forse - questa salvezza, non vi è, a rigore, alcuna necessità di appellarsi ad un sistema (ad una ideologia) religioso o all'altro, afferrandoli come salvagente per il naufrago. Basta la ragione ed una visione "lunga".
Cordiali saluti.
Vittorio Lussana - Roma - Mail - venerdi 1 maggio 2009 15.24
RISPOSTA AL SIGNOR ALVISE: gentilissimo Alvise, la dott.ssa Chiara Scattone si è laureata in diritto musulmano a pieni voti, è ricercatrice presso l'Università di Tor Vergata e sta per pubblicare un saggio, per conto dell'Eurilink, la casaeditrice dell'Eurispes, sulla Storia dell'usura in tutte le religioni monoteiste. Ciò solamente per darle il senso del livello delle collaborazioni di cui si avvale la presente testata. Se deve sollevare obiezioni nei confronti della dott.ssa Scattone, la prego gentilmente di evitare screditare una studiosa seria ed impegnata come se si trattasse di una ragazzina qualsiasi. Cordiali saluti.
VL
Giuseppe - Roma - Mail - giovedi 30 aprile 2009 10.3
Gentile Alvise, credo che Lei non abbia alcuna conoscenza dell'islam e quindi i Suoi giudizi negativi mi paiono solo frutto di un pregiudizio purtroppo assai diffuso nella nostra cultura occidentale che vede nella cultura mussulmana tutto il male del mondo. Non è affatto così. Credo che con maggiore umiltà dovremmo accostarci alla cultura dell'islam che ha fornito un grande contributo di pensiero allo sviluppo della nostra stessa civiltà occidentale.Nell'articolo di Chiara Scattone ci viene fornita una guida alla lettura dei precetti dell'islam applicati all'economia dai quali si evince con chiarezza che l'azione dell'uomo nel campo delle attività economiche non può essere guidata da una visione solo del proprio particolare, ma ispirata ai principi della solidarietà e della cooperazione tra gli individui. E' tutto l'opposto del capitalismo occidentale che mira invece al profitto in sè ed esalta l'avidità dell'individuo quale fattore di progresso. Riflettiamo bene; io non ho alcuna simpatia per il figliuol prodigo come non ho alcuna simpatia per il perdono dei peccati. Credo invece che si debba coltivare con maggiore attenzione l'etica della responsabilità e che sia doveroso da parte di ognuno di noi agire senza dimenticare i principi della cooperazione e della solidarietà collettiva che (come ci insegna l'islam) sono il cemento essenziale del contratto sociale che tiene unità la società in cui viviamo.
alvise - iTA - Mail - mercoledi 29 aprile 2009 20.58
Desolato, ma il suo pezzo sull’islam è per me aria fritta.
L’usura era condannata anche dal Cristianesimo , almeno fino all’arrivo dei francescani.
“Il tempo appartiene a Dio” e quindi non si può monetizzare, era un principio diffuso e accettato. Il “peccato” d’usura veniva infatti commesso da un non-cristiano, che era obbligato a esercitare solo (o quasi) quella professione. L’ebreo era il capro preferito.
Credo che lei abbia una visione imprecisa dell’islam e non abbia ben sviluppato il tema che a mio avviso davvero separa le due religioni : il diverso rapporto Uomo-Dio, che ognuna propone.
Non vorrei entrare troppo nel merito, ma se posso fare un paragone esemplificativo i due rapporti assomigliano terribilmente a quelli che nella Parabola del Figliol Prodigo hanno di due fratelli (uno scapestrato, richiama il cristiano) e uno obbediente ( che ricorda il rapporto di sottomissione islamico) con il loro Padre.
Buona lettura
Alvise Bojago
Loredana - Roma - Mail - giovedi 23 aprile 2009 16.52
Grazie per le informazioni preziose sulla finanza islamica che aiutano molto a chiarire il funzionamento di un modello economico assolutamente originale quanto lontano dai nostri costumi occidentali. La crisi che stiamo vivendo trova origine in un eccesso di finanziarizzazione dell'economia scatenata dall'avidità di pochi nell'accaparramento delle risorse comuni; la libertà economica portata all'eccesso ha generato mostri che producono povertà e disperazione per tutti coloro che vengono esclusi dalla ripartizione di risorse e beni essenziali. Credo anch'io che sia necessario un nuovo modello di sviluppo basato sull'etica della solidarietà; i principi su cui si fonda l'economia islamica possono aiutarci a costruire nuove opportunità non solo fondate sulla ricerca spasmodica del profitto ma del bene collettivo.


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