Vittorio LussanaNei prossimi giorni ricorre il 50esimo anniversario dell'esplosione della rivolta studentesca del '68. Si trattò di un momento di divario netto e radicale tra la generazione dei 'padri' e quella dei 'figli'. Una rivolta che, per la prima volta, segnalò le profonde 'crepe' della società italiana, che venne messa sotto accusa per la propria ipocrisia e nel suo moralismo di fondo. Tratti che, ancora oggi, rimangono salienti nella visione 'integrista' della cultura cattolica italiana. Proviamo a riassumere cosa accadde in quel favoloso 'anno dei miracoli'. Pochi sanno che tutto cominciò a Firenze il 30 gennaio 1968: alla fine di una manifestazione, alcuni studenti universitari fiorentini organizzarono un 'sit-in' in piazza San Marco, mentre una delegazione di rappresentanti di tutte le facoltà era dal Rettore per presentare un documento di riforma degli studi, quando all'improvviso una 'carica' delle forze dell'ordine causò numerosi contusi e feriti. Nei successivi giorni di febbraio, gli studenti dell'Università 'La Sapienza' di Roma risposero occupando la facoltà di Lettere e Filosofia riuscendo a ottenere, da una parte dei professori, la promessa di sperimentazione di una didattica 'alternativa' (controcorsi, seminari autogestiti, esami di gruppo e così via). Ma l'allora Magnifico Rettore dell'ateneo capitolino, aizzato dall'ala più intransigente del corpo accademico, decise di chiamare la Polizia, la quale intervenne sgombrando le aule e prendendo tutti quanti a 'randellate'. Subito gli studenti si riorganizzarono con un nuovo corteo, diretto a Montecitorio e finalizzato a protestare contro tali fatti, ma di nuovo la Polizia li bloccò per la strada, picchiandoli selvaggiamente. L'inquietudine cominciò allora a salire anche tra gli studenti più 'moderati', quelli che generalmente mantengono, come loro interesse prioritario, quello di terminare gli studi il più in fretta possibile. E infatti, ai primi di marzo molti ragazzi decisero di riunirsi in piazza di Spagna, con l'intento di occupare la facoltà di Architettura: un edificio immerso nel bel mezzo dei bellissimi giardini romani di villa Borghese. Essi iniziarono a dirigersi verso le strade di Valle Giulia, ma sul posto trovarono ogni strada sbarrata dalla Polizia, la quale già da ore stava presidiando l'intera zona. Le forze dell'ordine, non appena intravidero il corteo, iniziarono a 'caricarlo' pesantemente, inseguendo i ragazzi in mezzo alle aiuole e 'pestando' duramente chi veniva catturato. Ma all'improvviso, i ragazzi decisero di reagire, picchiando a loro volta i poliziotti e incendiando varie camionette della Polizia: era la guerra! Il 26 marzo successivo, giorno di Pasqua, uno studente della facoltà di sociologia dell'Università di Trento chiese di entrare in contraddittorio con il prete che stava celebrando la propria predica nella cattedrale della città, ma i fedeli, inferociti, lo afferrarono, lo malmenarono e lo scaraventarono in strada. Nei tre giorni successivi, capannelli di ragazzi cercarono di penetrare nella chiesa. Non riuscendoci, decisero di accamparsi sul sagrato, leggendo a voce alta alcuni passi delle opere di Don Lorenzo Milani, fino al giorno 30 marzo, in cui centinaia di locali iniziarono a lanciare mele e uova contro il portone della basilica, alternando la bestemmia con l'accusa di ateismo ("Vegnì fora senzadio! Vegnì fora porcodio"!). Qualche settimana prima, il preside del Liceo Parini di Milano era stato sospeso dal ministro della Pubblica istruzione per essersi rifiutato di cacciare dalla scuola i suoi alunni con l'aiuto della forza pubblica. Immediatamente, si stabilì un clima d'intesa tra studenti medi e universitari, che toccò il culmine il 23 marzo, quando venne occupata addirittura l'Università cattolica e la Polizia dovette reagire sgomberando l'istituto con la forza, sprangandone ogni accesso. Nel giro di poche ore, circa 4 mila studenti si assieparono in largo Gemelli, apostrofando, per bocca di Mario Capanna, i tutori dell'ordine affinché sloggiassero alla svelta: ne ricavarono una sortita a colpi di manganello e una cinquantina di arresti. Il 21 dicembre, sempre a Milano, un gruppo di giovani dell'Università statale organizzò una protesta contro la mercificazione del Natale innanzi al grande emporio de 'la Rinascente'. Le signore della buona società meneghina stavano tranquillamente celebrando il loro tradizionale rito dello 'shopping', mentre i dimostranti discorrevano in modo bonario con i custodi del grande magazzino quando, a un certo punto, una marea di curiosi si accalcò intorno agli addetti al volantinaggio cominciando a proferire parole grosse: subito piombarono le 'volanti' e, mentre i passanti si disperdevano, i ragazzi vennero regolarmente picchiati e tradotti in questura. Questi episodi già da soli segnalano quali furono i caratteri salienti di quella rivolta: a) una 'compartimentazione generazionale' degli studenti; b) il rifiuto di un sapere avulso dai bisogni di chi ne apprende i contenuti; c) il ricorso a tattiche 'perturbative'; d) 'chiazze' di cattolicesimo 'dissenziente'; e) un antiautoritarismo che investì imparzialmente le autorità scolastiche, il clero, la politica, la borghesia e la famiglia; f) il desiderio di riappropriarsi di una propria 'soggettività'; g) una denuncia, praticamente globale e senza appello, del sistema di produzione, distribuzione e consumo dei beni.

AFFINITA' E DIVERGENZE ITALIANE
Ma il '68 italiano ebbe dei connotati originali, rispetto a quanto stava accadendo nelle altre università di tutto il resto del mondo? Quelle sopra elencate, in effetti, erano caratteristiche abbastanza comuni di una ribellione planetaria, che in quegli anni incredibili si diffuse da Berkeley a Tokio, passando per Berlino e Parigi. Tuttavia, col senno di poi, possiamo cogliere alcune differenze significative: innanzitutto, il movimento studentesco fu radicalmente 'antistituzionale'. E siccome istituzioni come la famiglia e l'università non sono uguali dappertutto, anche la contestazione assunse, per forza di cose, forme, obiettivi e stili decisamente 'consentanei' alla loro specifica natura. Rispetto al 'maggio francese', qui da noi non si registrò mai alcuna reale convergenza fra gli studenti e una buona parte dell'intellettualità 'adulta'. Nonostante ciò, si può comunque affermare che si trattò di 'spinte' e motivazioni della matrice prettamente 'transnazionale', poiché molte analisi socio-antropologiche relative a quell'improvvisa ribellione di tanti giovani dipendevano da distinti fattori sociali e psicologici, diversi a seconda dei luoghi e dei tipi di società. Elenchiamone alcuni: 1) un'esagerata permissività 'iperconsumista' nell'educazione americana; 2) una reazione a un eccesso di autoritarismo in quella tedesca e nipponica; 3) la totale mancanza di democrazia nei Paesi dell'Europa orientale; 4) una cronica e disastrosa mancanza di posti di lavoro per gli studenti italiani e francesi; 5) una sovrabbondanza di carriere in quasi tutti i settori professionali negli Stati Uniti. Tutte condizioni che appaiono localmente plausibili, ma che sono in netta contraddizione con il fatto che quella rivolta fu un fenomeno mondiale. Rimane pur vero che un comune denominatore sociale dei 'furori sessantottini' non risulti facilmente rintracciabile. Ma è altrettanto realistico affermare che quella generazione di ragazzi sembrò dovunque, in ogni Paese del mondo, psicologicamente colta da un sorprendente coraggio, da una clamorosa volontà di agire e da una non meno sorprendente fiducia nella possibilità di un grande cambiamento planetario. Indubbiamente, queste sono valutazioni di carattere 'qualitativo', più che delle autentiche cause di carattere empirico. Ma se ancora oggi ci si domanda cos'abbia effettivamente provocato quell'esplosione, diviene assurdo ignorare il fatto che il progresso tecnologico, il più delle volte, porta a veri e propri disastri, poiché la scienza non solo è spesso incapace di modificare le conseguenze negative del proprio stesso sviluppo, ma già allora aveva raggiunto un livello tale per cui non era rimasta neanche una 'maledetta cosa' che non venisse trasformata in guerra, o utilizzata per tale fine. Oltre alla persuasione di vivere in un mondo in cui scienza e tecnica vengono utilizzate per dominare e, talvolta, per sterminare, quella generazione seppe dimostrare una propria 'coscienza', ovvero la consapevolezza di essere, per l'appunto, una 'generazione'. Non si tratta di banale tautologia. Anche se l'uso di un simile concetto come categoria di analisi non di rado è impreciso e astratto, ciò non significa che i giovani di allora non dimostrarono uno straordinario coraggio: quello di volersi introdurre a viva forza sul palcoscenico in cui si recitava la commedia sociale muovendosi come un aggregato di interessi, aspirazioni e progettualità già passati dallo stadio idealistico a quello concreto, risentendo del proprio contesto storico allo stesso modo delle élites e delle associazioni professionali.

IL NUOVO LINGUAGGIO DEL '68
Chi ha letto Stendhal, sa bene che le vicende di Julien Sorel ne 'Il rosso e il nero' riflettono i sentimenti, gli slanci, le miserie e le passioni di tutta la gioventù francese della Restaurazione. E chi conosce le 'Lezioni proibite' di Jules Michelet può comprendere appieno quanto poco estemporanee siano le teorizzazioni dei giovani in quanto 'classe', la loro autoassegnazione di una missione rivoluzionaria, la fiducia smisurata nel potere dell'immaginazione e della parola, l'idea della necessità di una 'controcultura'. Sin dalla metà del secolo XIX, tutte le generazioni della fascia euro-americana avevano incontrato un evento storico attorno al quale costruire la loro identità: le guerre di indipendenza in Italia e in Germania; i moti rivoluzionari del 1848; la guerra di secessione negli Stati Uniti; la guerra franco-prussiana; l'affaire Dreyfus; la rivoluzione russa del 1905; la prima guerra mondiale; la rivoluzione sovietica del 1917; il volontariato internazionale in Spagna; infine, la Resistenza contro il nazismo e il fascismo. Certamente, stiamo parlando di conflitti. Tuttavia, in tutti questi casi si è sempre trattato di conflitti ad 'alto tasso di legittimazione ideologica', di guerre sentite come giuste, cioè giustificate dalla 'domanda' di autodeterminazione dei popoli e dall'ormai necessaria modernizzazione di società arretrate come, appunto, quella italiana. Durante il '68, ciò che veramente fece da 'collante' di un'intera generazione fu, dunque, il ricatto di una guerra nucleare, la quale condannava l'umanità alla perpetuazione di tutte le sue disuguaglianze e di tutte le sue ingiustizie. Anzi, proprio in base a ciò possiamo persino arrischiare un primo giudizio: i 'moti' del 1968 furono sostanzialmente un idioma, un nuovo 'linguaggio' teso a includere tutte le forme di espressione, intellettuale e corporea, che si erano poste il fine di generare un nuovo spazio politico niente affatto destinato alla conquista del potere sulla società, bensì al libero esercizio della comunicazione intersoggettiva. In buona sostanza, l'idea portante non fu quella di volersi "impadronire del potere", bensì di costruire nuovi spazi di espressione più libera, che consentissero a ognuno di divenire un soggetto di decisione e azione.

IL CICLO ITALIANO DELLA PROTESTA
Delineato in questi termini, c'è da dire che, in Italia, il ciclo della protesta durò, tutto sommato, piuttosto poco: cominciò con l'occupazione dell'Università di Pisa nel febbraio del 1967, passò attraverso le occupazioni di altre sedi universitarie (Milano, Trento, Torino, Padova, Roma e Napoli) e si esaurì rapidamente il 31 dicembre 1968, con la spettacolare e disperata manifestazione davanti alla 'Bussola' di Marina di Pietrasanta, allorquando la Polizia aprì il fuoco per la prima volta ferendo gravemente un dimostrante. La storia successiva fu semplicemente quella di un 'rifluire' di minoranze, già precedentemente politicizzate, in formazioni fortemente critiche nei confronti del 'revisionismo' di Pci e Psi, 'frutti avvelenati' che, con alterna fortuna, diedero poi vita a 'gruppuscoli rivoluzionari'. Occorre inoltre sottolineare come, nei suoi mesi più 'caldi', il movimento studentesco abbia mostrato una duplice composizione: da una parte, vi fu l'adesione e la presenza di leader e militanti prestigiosi provenienti dai Partiti storici (Guido Viale e Gianmario Cazzaniga), dalle organizzazioni studentesche tradizionali (Marco Boato), dai nuclei nascenti della 'Nuova sinistra' (Adriano Sofri, Romano Luperini e Umberto Carpi); dall'altra, la caratteristica del '68 'italiano' fu quella di aver evidenziato una massa enorme di giovani ancora privi di esperienze associative, dunque ansiosi di estrinsecare la propria creatività e di liberarsi dalla 'cappa' di gerarchie burocratiche, gerarchiche e 'familiste' che li stava opprimendo da ogni lato. Ciò che ha umanamente alimentato una seppur breve fusione 'olistica' di tanti ragazzi fu, insomma, una vera e propria 'fiammata' di comunitarismo cameratesco, allegro e fortemente inventivo. Una sorta di 'carnival estudiantin', unito al singolarissimo clima che si era venuto a creare durante le occupazioni: nelle sale e nei corridoi delle facoltà, i ragazzi suonavano la chitarra, dormivano nei 'sacchi a pelo', dipingevano 'murales' e facevano all'amore, mentre nelle interminabili assemblee in cui si discuteva la 'linea' a nessuno veniva negata la performance individuale, l'esibizione narcisista, l'ora di notorietà sancita da un applauso, o dall'approvazione di un documento, una mozione, un ordine del giorno. Tutto ciò, naturalmente, non esclude che anche il '68 non debba essere analizzato nelle sue profondità più propriamente politiche. Ma su tale versante non è possibile negare come esso sia germogliato in quanto reazione a un fortissimo 'disagio' dovuto alle 'strozzature' dello sviluppo economico italiano, combinato a una 'staticità' del nostro 'quadro politico' che faceva letteralmente 'cadere le braccia'. Nel nostro Paese, le agitazioni presero le mosse dall'ostilità generale verso il progetto di legge n. 2314 - il cosiddetto 'piano Gui' - all'interno del quale, nonostante un'intera legislatura di discussioni, tutte le evidenti e necessarie modifiche dell'ordinamento universitario si erano risolte in 'briciole' che continuavano, fondamentalmente, a negare ogni forma di autonomia degli atenei rivendicando, altresì, con 'arrogante puntiglio', il controllo dell'esecutivo su ogni provvedimento emanato dagli organismi accademici. In altri Paesi, i problemi sollevati dai movimenti studenteschi avevano toccato la scuola solamente per chiedere una maggior agibilità e, nelle università, per sollecitare una reale indipendenza della cultura dal potere. Qui da noi, invece, la 'battaglia' contro il 'piano Gui' finì col rappresentare l'unico elemento di 'coagulo' prevalente, il solo realmente di massa. E proprio per questo, le elaborazioni di alcuni giovani teorici, spesso assai pregevoli, rimasero isolate, trasformando la 'battaglia' in 'negativo', facendole cioè assumere caratteri di retroguardia. In Francia, questo non era affatto accaduto: dopo il 'joli mai', l'allora primo ministro, Georges Pompidou, si affrettò a predisporre una riforma generale delle università, che riuscì a porre fine al controllo ministeriale sugli atenei tarpando per sempre le 'ali' a ogni genere di contestazione. Anche in Italia si tentò d'imboccare la medesima strada con il ddl n. 612, il quale prevedeva: a) un reclutamento più severo dei professori; b) l'obbligo del tempo pieno; c) l'incompatibilità con l'esercizio della libera professione per il personale docente; d) la pianificazione delle sedi con divieto di corsi decentrati; e) organi di autogoverno degli atenei fondati su meccanismi di rappresentanza autenticamente democratici. Purtroppo, però, i democristiani la 'buttarono' subito in 'caciara', accusando i socialisti di voler imporre una ristrutturazione sostanzialmente 'libertaria' degli atenei. E di quel progetto di legge non se ne fece mai nulla. Soltanto alla fine del 1969 si riuscì a giungere a un estenuante 'palliativo', denominato 'Codignola uno' - Legge n. 910 del 1969 - attraverso il quale si decise finalmente di liberalizzare l'accesso a tutte le facoltà per i diplomati di tutte le scuole secondarie superiori e di autorizzare gli studenti a predisporre la presentazione di 'statini', ovvero piani di studio individuali difformi dalle propedeuticità, alle volte assai stucchevoli, determinate dall'alto. Tuttavia, anche il 'Codignola uno' si confermò una normativa 'monca', che arrivava con estremo ritardo e che, esattamente per tali motivi, non riuscì a impedire che le conseguenze della protesta dilagassero, negli anni successivi, verso un pericoloso 'gruppuscolarismo' arrogante e opportunista.

LE PROPOSTE
Ma cosa ha proposto o si proponeva, alla 'fine della fiera', il movimento studentesco del '68 nelle sue elaborazioni più 'interessanti'? Alcuni pregevoli documenti di quegli anni configuravano situazioni e richieste molto diverse da luogo a luogo. La differenza che balza subito agli occhi passa tra i testi più radicali, preannuncianti la 'diluizione' del movimento e il suo stesso scioglimento nella società "a fini di una battaglia anticapitalistica generale", con le tesi più 'moderate', le quali si attenevano a una critica dell'organizzazione degli studi e a una serie di proposte di ristrutturazione delle università, sostitutive di quelle avanzate dalle classi 'dominanti'. Le 'Tesi della Sapienza', per esempio, presentate dai ragazzi dell'Università di Pisa al XVI Congresso dell'Unione goliardica italiana, affermavano che "il movimento studentesco ha come propria controparte la classe borghese storicamente dominante" e che "tale dominio di classe si manifesta attraverso una serie di mediazioni che sono espressione di un piano organico del capitale". Altri 'piccoli lavori' miravano a "una costante verifica della propria analisi teorica", riconoscendo "nella classe borghese la propria controparte e organizzandosi in sindacato studentesco". Un noto saggio degli studenti di sociologia dell'Università di Trento, intitolato 'Potere e società', si spinse ben oltre, adoperando un linguaggio meno 'intinto' nel marxismo classico, al fine d'inseguire il miraggio di un generale affratellamento tra tutti i 'dannati della Terra': "Il 'potere dei fiori' è e rimane soltanto un'etichetta se non si sostituisce qualcos'altro ai 'fiori'; se si compiace del proprio isolamento; se vegeta all'interno di se stesso; se non comprende che nel mondo ci sono altri esclusi e non si collega con essi; se non crea il fronte dei 'senza potere' da opporre a coloro che il potere ce l'hanno e lo usano. Una riprova che il 'potere dei fiori' mostra, sul terreno pratico, i suoi limiti, è da ricercarsi nel diritto di cittadinanza che gli riconosce il sistema. Il sistema non compirà mai la 'gaffe' di impedire al 'potere dei fiori' di vivere: non si distrugge quel che non crea problemi, ciò che non rappresenta una minaccia, quel che può essere, al limite, utilizzato dal sistema stesso come elemento di 'colore', interessante a vedersi. Per il sistema, invece, occorre impedire che il 'negro' possa capire che la sua condizione è la medesima in cui versa il 'giallo', il sudamericano, il 'rosso', l'operaio e lo studente, poiché occorre spezzare sul nascere la possibilità che l'intreccio delle mani che si stringono possa costituire una barriera, un fronte". Di converso, gli aspiranti architetti del Politecnico di Milano si accontentarono di ridisegnare la propria figura professionale, perseguendo una radicale trasformazione didattica della ricerca e dell'organico, attraverso la messa in discussione dei "rapporti istituzionali tradizionali", mentre gli allievi della Cattolica, protagonisti di un'occupazione inaspettata, che aveva lasciato 'attonite' tutte le autorità, ma che traeva motivo dal semplice aumento delle tasse d'iscrizione all'Università, si mostrarono ancor più 'minimalisti', reclamando essenzialmente "la democratizzazione immediata dell'università; l'introduzione di rappresentanze di tutte le componenti negli organi di governo dell'ateneo; la garanzia della libertà di espressione culturale e politica". Insomma, quando le agitazioni si esaurirono, più che le analisi prolisse dei 'compitini teorici' appena citati, o i numerosi 'bollettini di guerra' emersi dalle interminabili assemblee permanenti, del '68 sopravvissero soprattutto alcune 'tecniche' di comunicazione, adottate nel vivo delle occupazioni e che, bene o male, divennero successivamente patrimonio delle femministe e degli operai 'incazzati': dal 'dazebao', il manifesto vergato con il pennarello a spirito in caratteri cubitali, utilissimo per l'informazione interna, al 'samizdat', una sorta di antenato della 'newsletter', stampato al ciclostile e recapitato manualmente a un numero più o meno ristretto di destinatari; dalla veglia notturna, spesso ravvivata da 'fiaccolate' tanto care agli studenti cattolici, al 'sit-in', ovvero lo stazionamento inattivo in zone di traffico ad alta densità o davanti ad ambasciate, ministeri ed edifici pubblici. In ogni caso, già all'inizio del 1969 molti 'sessantottini' si trovarono costretti a 'tornare a casa', recuperando la propria normalità quotidiana e ristabilendo un rapporto con le loro famiglie, gli studi e il lavoro. Ma essi non erano più quelli di prima: alcuni iniziarono ad 'arrovellarsi', portandosi dentro una sensazione di 'vuoto', come quello di chi ha vissuto un momento 'irripetibile'; altri contrassero la malattia del 'reduce', risentito per l'indifferenza vagamente ostile che li circondava; altri ancora, fortunatamente la maggioranza, tentarono di mettere a frutto la scoperta che "si poteva": si poteva 'contare di più' socialmente; si potevano assumere comportamenti 'giocosamente trasgressivi'; si poteva 'disobbedire razionalmente'; si poteva realizzare qualcosa con un gruppo di amici o di persone - una rivista, una mostra, un documentario - senza dover per forza 'piegare la schiena' e soggiacere ai riti della 'competizione individuale'. Si potevano, insomma, trasferire nuovi atteggiamenti morali e culturali nelle proprie professioni.

L'AUTUNNO 'CALDO'
Purtroppo, vi fu anche chi di 'tornare a casa' non ne volle sapere. Persuasi dalla scoperta che si poteva "fare la rivoluzione", rovesciare il sistema e sconfiggere l'imperialismo, gli elementi più estremisti trovarono un'opportunità che li aiutò a uscire dal vicolo 'cieco' in cui erano finiti con l'esplosione, verso la fine del 1969, della vertenza per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici: il famoso 'autunno caldo'. La contrapposizione si era già aperta nel settembre del '68, ma nel febbraio dell'anno successivo cominciarono ad accavallarsi astensioni dal lavoro ed episodi di 'scontro', che avevano reso incandescenti soprattutto le officine dello stabilimento Fiat di Mirafiori. Dopo uno stillicidio di scioperi, dagli inizi di maggio in poi divenne abituale, a Torino, la presenza di molti studenti davanti ai cancelli delle fabbriche. Il giorno 27 di quello stesso mese, un corteo di operai e studenti 'infilitrati' attraversò tutti i reparti della fabbrica al grido di "Potere operaio"! E nel successivo mese di luglio, durante una manifestazione tenutasi in corso Traiano e indetta proprio dalla 'Nuova sinistra', scoppiarono incidenti che si conclusero con una trentina di arresti, un processo per direttissima e l'immediato licenziamento di 18 lavoratori condannati. In settembre, la Fiat sospese, dopo mesi di continue agitazioni a 'gatto selvaggio' o a 'scacchiera', 25 mila lavoratori. E cinque giorni dopo, si registrò un fallito tentativo di occupazione della fabbrica che aveva 'segnalato' la presenza di numerosissimi 'esterni', fatti entrare di soppiatto dai dipendenti. Durante l'autunno, le lotte si diffusero a 'macchia d'olio', fino ad arrivare al blocco totale della produzione. Finalmente, il 21 dicembre, anche a causa del clima di angoscia in cui era piombato il Paese per l'orrenda strage di piazza Fontana a Milano, i sindacati riuscirono a chiudere una vertenza che prevedeva: a) 65 lire di aumento orario per tutti i lavoratori; b) l'aggiunta di un giorno al periodo annuale di ferie; c) il diritto a convocare assemblee sui luoghi di lavoro; d) la possibilità di concordare il 'cottimo' senza pretendere un aggiornamento dei tempi di lavorazione ai livelli massimi ottenuti dagli operai cosiddetti 'velocisti'. Ma a prescindere da tali 'successi sindacali', l'autunno 'caldo' rappresentò, in realtà, un primo momento di 'sdoppiamento' e, per lunghi tratti, di aperta separazione tra gli operai sindacalizzati e quelli 'incazzati', tra gli 'organizzativisti' e i 'movimentisti'. Un 'dualismo' che rischiò fortemente d'indebolire il sindacato ufficiale, portando numerosi lavoratori sull'orlo del 'baratro' professionale, materiale e persino esistenziale, come 'radiograficamente' documentato da Elio Petri nel film: 'La classe operaia va in Paradiso'. Ma più d'ogni altra cosa, queste avanguardie - o retroguardie - studentesche, attraverso una campagna sostanzialmente 'incendiaria', nel loro 'luddismo' distruttivo e astratto ridussero la possibilità della nascita di una nuova cultura della professionalità operaia, fondata sulla reale cognizione dei processi di produzione attraverso i quali le singole mansioni s'inseriscono nel complesso del ciclo produttivo e industriale. Insomma, quella della 'Nuova sinistra', diretta discendente del '68, rappresentò una 'perversa torsione' del 'marxismo' basata sul 'casino' come coronamento della lotta e il parossismo intellettuale come forma di 'esportazione' della 'coscienza di classe'. Situazioni che approdarono al 'corrodimento' di un moto che, invece, era sorto con molti momenti di 'spontaneiità', innestandosi su una serie di istanze 'normalmente modernizzatrici': 1) richieste di relazioni economiche e sociali più equilibrate; 2) condizioni di lavoro meno asimmetriche rispetto ai livelli di reddito e di tenore di vita dei lavoratori dipendenti; 3) un abbassamento delle 'piramidi gerarchiche'; 4) la contrattazione permanente degli aspetti normativi dei rapporti di lavoro.

CONCLUSIONI
In conclusione, i 'percorsi' attraverso i quali, tra il 1968 e il 1977, 'scesero in campo', in Italia, determinati 'movimentismi' studenteschi, operai e, in seguito, 'femministi' - per non parlare dei successivi 'frutti avvelenati' rappresentati dalla formazione di gruppi terroristici di estrema sinistra e di estrema destra - furono causati da una modernizzazione avvenuta a prezzo di 'laceranti convulsioni', di vite bruciate, di 'febbri' dell'intelletto assolutamente sproporzionate. Altri Paesi, come per esempio gli Stati Uniti e la Germania, negli stessi anni hanno conosciuto un adeguamento praticamente 'automatico' delle istituzioni, pubbliche e private, alle nuove possibilità offerte dallo sviluppo economico. Solamente l'Italia dovette sopportare costi elevatissimi per riuscire a ottenere ciò che, nel resto del mondo, furono considerate richieste 'normali' di miglioramento delle condizioni di istruzione e di lavoro. Per dirla in tutta franchezza, anche e soprattutto nei confronti di chi spesso si rifiuta di apprendere veramente quanto accaduto nel 1968, o di comprenderne l'importanza storico-politica addebitandogli solo le 'ricadute' più 'decadenti' o 'nichiliste', chiarissima appare la necessità intellettuale e morale d'indicare come, nell'analizzare determinati fenomeni, non serva a nulla rinchiudersi nei 'comodi recinti' del qualunquismo 'egoistico', bensì occorra allungare il nostro 'sguardo' e interpellare, con profondità e urgenza, la nostra 'memoria storica'. Perché in Paesi come il nostro, in cui il 'digiuno politico' si è protratto per troppo tempo - prima con il fascismo, poi con le serrate oligarchiche, infine con il 'professionismo partitocratico' - e in cui la 'doppiezza' e il 'perbenismo' dell'etica dominante, custodita specificamente dalla Chiesa cattolica, hanno a lungo represso oltre ogni misura qualsiasi desiderio di 'felicità possibile', diviene inevitabile che quella libertà civile e sociale, espressa e teorizzata dal liberale Stuart Mill, non si faccia largo a 'scossoni'. Se non proprio a 'cannonate'.




Direttore responsabile di www.laici.it e della rivista mensile 'Periodico italiano magazine' (www.periodicoitalianomagazine.it)

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