Alessandro BertirottiLa nostra umanità, il nostro essere uomini, Homo sapiens sapiens, presenta caratteristiche decisamente singolari e ce lo ricorda bene questo incipit: "Quando noto attentamente le curiose abitudini dei cani, sono costretto a concludere che noi siamo la specie superiore. Quando considero le abitudini degli uomini, confesso amico mio, che resto perplesso" (Ezra Pound). In effetti, è sufficiente leggere i quotidiani, oppure aggiornarci in rete, per renderci conto della veridicità di questa affermazione e, con una certa insistenza, ci domandiamo anche perché gli individui siano i soli a essere in grado di allontanarsi dalla loro natura. Ora qui, non si tratta di disquisire su quello che vogliamo intendere con il termine natura, perché il discorso, ovviamente assai antico, richiederebbe molti giorni per accordarci su una connotazione che lascerebbe comunque qualcuno insoddisfatto. Intendo invece e qui, in questo contesto, la natura, come fosse sostituibile con il termine fisiologico, e con questo mi riferisco così a due importantissime dimensioni fisiologiche, l'aggressività del potere e l'accoglienza della sottomissione, che si possono tradurre a volte rispettivamente in termini di male e bene. Ciò che continua a meravigliare, dopo millenni di evoluzione, è l'esistenza di questi due estremi tra loro in antitesi, sia in una stessa persona (e nessuno di noi ne è mai assolutamente immune), sia all'interno dei rapporti interpersonali, nonostante si tenda a considerare l'equilibrio tra questi due termini un valore genericamente universale. Siamo così, ancora oggi, in presenza di soprusi di stato, ingiustizie, domini autoritari che negano i più elementari diritti umani, implicitamente affermando che lo status quo è una delle forme migliori di equilibrio, anche se dettato dal potere del più forte sul più debole. Ma quello che appare ancora più sconvolgente, almeno dal mio punto di vista, è constatare che quando il debole ha acquistato il potere del più forte che prima contrastava, nel momento in cui si trova in questa nuova situazione diventa lui stesso la copia di colui che aveva aspramente condannato. Siamo in presenza di uno stravolgimento di tipo mentale, un vero e proprio nuovo atteggiamento mentale che si configura nell’essere umano nel momento in cui può esercitare un potere maggiore su altri individui. Ecco che, seguendo questo schema, le rivoluzioni sono un espediente della storia per mantenere identica la struttura della società, cambiando solo coloro che ne garantiscono la sopravvivenza, vale a dire gli esseri umani che cambiano casacca e ideologie. La ragione di tutto questo è forse rintracciabile in una convinzione che gli individui, appartenenti a tutte le culture del mondo e a tutte le classi sociali, si sono formati durante la loro evoluzione. Ritengo che l'imperativo biologico e fisiologico che porta ognuno di noi a percepire la vita come qualcosa di ineludibile e fondamentale comporti anche il convincimento di poter diventare tutto o niente. In altre parole: conduciamo una vita in base alla quale crediamo di riuscire a essere talmente permeati della nostra identità desiderata, da non aver più spazio per accogliere l'identità che eravamo quando cercavamo di migliorare le nostre condizioni di vita. Penso inoltre che vi siano particolari azioni che inducono gli uomini a incorrere in questo errore fatale: l'idea che si possa possedere tutto quello che si riesce a comprare, oppure a rubare. Per il linguaggio mentale, entrambe le cose, il comprare oppure il rubare, sono pressoché identiche, perché entrambe comportano un prezzo da pagare per ottenere qualche cosa sulla quale esercitare il potere aggressivo. In fondo, possedere un'idea è qualcosa di simile e, per questo, esiste la convinzione di godere del diritto a pensare autonomamente. Se le cose stanno effettivamente in questo modo, come possiamo affrontare la questione del male e del bene, in queste forme e nel futuro? Vi propongo una soluzione timida e semplice, come peraltro dovrebbe sempre accadere quando ci riferiamo agli esseri umani: limitare a un periodo che non superi i 24 mesi qualsiasi forma di esercizio di potere, con l'obbligo di doversi aggiornare misurandosi in situazioni completamente nuove, per le quali sia richiesta la riformulazione della propria identità, come persone e come lavoratori. Viviamo in una effettiva precarietà esistenziale, perché non decidiamo certo noi quanto tempo vivere, sebbene si possa influenzare con precisi stili di vita questo tempo. Eppure, ci comportiamo come fossimo eterni, creando in noi e attorno a noi subdoli convincimenti megalomani. Forse, in questo modo, potremmo lentamente comprendere che siamo quello che facciamo, in ottica antropologico-mentale, e che se cambiamo il fare potremmo cambiare anche l'essere.




(articolo tratto dal sito www.affaritaliani.it)
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Francesco Pelillo - Lerici Italia - Mail Web Site - lunedi 7 gennaio 2013 17.24
Caro Alessandro, secondo me il punto fondamentale che sollevi, e cioè, l'interscambiabilità dei ruoli nei confronti del bene e del male, è spiegabile con la necessità inderogabile per ognuno, di vedere realizzata l'immagine che ha di sé stesso. Il fatto che uno lo faccia partendo da un'immagine subalterna, e quindi di debolezza, impone la collaborazione con altri individui che si trovano nella stessa condizione, e quindi fa assumere alle sue azioni il carattere di bontà altruistica. Una volta giunto al potere, lo stesso individuo, assumendo una nuova immagine di sé stesso, che contempla una sorta di autosufficienza difensiva di quella immagine che gli deriva dalla sua effettivamente aumentata potenza individuale, lo porta ad agire contro gli interessi della maggioranza, di cui prima faceva parte. Cioè, a fare assumere alle sue azioni il carattere della malvagità.


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