Vittorio LussanaUna delle idee che mi circolano per la testa in questi giorni è quella di proporre un profilo unitario alla nuova alleanza di centrosinistra formatasi tra il Partito democratico, il movimento ‘Sinistra e Libertà’ e il Partito socialista italiano di Riccardo Nencini e Bobo Craxi, una coalizione che si candida, questa volta con buone probabilità di successo, alla guida del Paese per i prossimi 5 anni. Tuttavia, non è affatto semplice riuscire a trovare una formulazione di principio che riesca a coniugare, con effettiva coerenza, il riformismo ‘turatiano’, quello cattolico-democratico e quello post comunista. Se si scegliessero come ‘numi tutelari’ Sandro Pertini o Ugo La Malfa, probabilmente si farebbe un ‘torto’ alla componente ‘dossettiana’. Se, invece, provassimo a spingere l’accelleratore sul versante ‘berlingueriano’, si rischierebbe di scavare un ‘solco’ sul lato socialista della coalizione, la quale, pur non nutrendo alcuna disaffezione nel ricordo del leader comunista sassarese, in ogni caso ha sempre mantenuto un proprio atteggiamento ‘realistico’ intorno ai limiti della sua nota proposta di ‘compromesso storico’, mentre qualche riflessione nel merito della cosiddetta ‘questione morale’ risulta, al contrario, valutata a posteriori. Dunque, a questo punto del ragionamento, il nome più carico di richiami per un più fecondo incontro tra umanesimo religioso e diversità ‘laica’, assumendo quest’ultima parola in quanto strumento prevalentemente ‘tecnico’ di costituzione di un nuovo fronte unitario di tutte le sinistre riformiste, rimane quello di Aldo Moro. Lo statista pugliese, infatti, possedeva la peculiarità di riuscire ad abbinare un’intensa vita di fede e devozione con il pessimismo antropologico del ‘credente in partibus’. E la sua idea della politica era influenzata da una religiosità ‘pudica’, mai invocata per vidimare scelte pubbliche. Non si sentiva attratto né dalle lusinghe dell’utopia, né dal fascino delle decisioni ‘maschie’, quanto piuttosto da un’ideale di ‘assenza di contrasti’ e di armonia tra tutti gli interessi legittimi che venivano posti sul ‘tappeto’ delle questioni da affrontare. Il suo stesso linguaggio, sintatticamente impervio, alludeva sempre senza connotare mai, proprio perché si preoccupava di non ledere, di non ferire, di non generare fratture. In effetti, Moro non era molto amato all’interno del proprio Partito di appartenenza, poiché nei confronti della Dc assumeva sempre un atteggiamento ‘pastorale’ - quello del ‘curato’ che le impediva di infliggersi colpi con le sue stesse mani - in grado di preservarla dal ‘cannibalismo’ e da ogni genere di lacerazione interna. All’interno dello ‘scudocrociato’, tale sagacia risultava assai preziosa, poiché riusciva a risolvere situazioni alle volte decisamente ingarbugliate. Come avvenne durante l’elezione di Giuseppe Saragat alla presidenza della Repubblica: una ‘empasse’ che si risolse solamente al ventunesimo scrutinio delle due Camere, riunite per più di quindici giorni consecutivi in seduta comune. Oppure, in quella venutasi a creare durante la crisi del secondo Governo Rumor, nel corso della quale era intervenuto addirittura il Vaticano al fine di impedire l’approvazione della legge ‘Fortuna – Baslini’ sul divorzio. Andiamo dunque a rianalizzare le vicende di quest’ultimo ‘passaggio’ parlamentare, che in effetti rappresenta un momento assolutamente ‘capitale’ per riuscire a comprendere alcuni aspetti significativi delle contingenze politiche italiane: dopo la caduta del secondo Governo Rumor (febbraio 1970) le trattative tra i Partiti del centrosinistra per la costruzione di un nuovo esecutivo furono seccamente paralizzate da un intervento della Santa Sede, un’ingerenza protesa a impedire l’approvazione definitiva del disegno di legge sul divorzio già munito del voto favorevole della Camera. In sostanza, il Vaticano ci tenne a ribadire che in quella proposta legislativa si configurava una palese violazione dell’articolo 34 dei Patti Lateranensi, laddove era espressamente prevista la competenza dei Tribunali ecclesiastici sugli annullamenti dei matrimoni celebrati secondo il rito religioso. La questione surriscaldò immediatamente il clima politico generale, poiché in una solenne dichiarazione del novembre del 1969, la Conferenza episcopale italiana aveva già fatto sapere che “in uno Stato democratico come quello italiano, nel quale i diritti della famiglia come società originaria, precedente lo Stato, vengono riconosciuti dalla Costituzione, non si può, in ogni caso, modificare la struttura fondamentale della famiglia stessa senza aver direttamente accertato il pensiero e la volontà della maggioranza del popolo, tutto ciò prescindendo dalla immodificabilità, per unilaterale iniziativa dello Stato italiano, della situazione disciplinata dall’art. 34 del Concordato”. I vescovi, in sostanza, stavano spingendo esplicitamente il Paese verso la consultazione referendaria. Come, del resto, gli stessi democristiani, i quali dovettero constatare l’esistenza di una larga maggioranza laica e ‘divorzista’ all’interno del Parlamento italiano di allora. In ogni caso, il ‘povero’ Rumor non era certo un esponente in grado di ‘reggere’ un ‘urto frontale’ con la curia romana. Pertanto, si affrettò a rimettere il proprio incarico “ritenendo inconciliabili le posizioni della Dc con i propri alleati intorno a una questione così delicata”. La ‘mano’ passò, dunque, ad Aldo Moro, che immediatamente ribaltò l’impostazione del problema rammentando come “Stato e Chiesa siano, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”, proponendo altresì di non immischiare il nuovo esecutivo intorno a una legge che, comunque, doveva ancora completare il proprio iter legislativo. In pratica, Moro si fece letteralmente ‘crocifiggere’ dalla stessa Dc, la quale non poteva permettersi che proprio un suo uomo la costringesse a ‘bere l’amaro calice’ della sconfitta su una questione di principio. Ma il ‘varco’ per la soluzione di quella crisi di governo era ormai stato aperto. E Mariano Rumor, ormai liberato dalla responsabilità di dover interpretare la parte del ‘notaio’ di un cedimento, potè finalmente a raggiungere l’intesa con Pri, Psdi e Psi in base all’impegno a non ostacolare il cammino in Senato della legge ‘Fortuna – Baslini’. Dunque, il 1° dicembre 1970 lo strumento del divorzio entrò definitivamente all’interno dell’ordinamento giuridico italiano: considerando quanto i comunisti si erano adoperati, nei mesi precedenti, per aiutare la Dc a circoscrivere i danni di una normativa che indispettiva anche una buona parte del proprio elettorato, il frangente politico ora esposto dimostra inequivocabilmente come Aldo Moro sia stato l’uomo più influente della vita politica italiana, il personaggio che ha scongiurato numerose battaglie, che ha addormentato tensioni e ricucito ‘strappi’. Egli non era insensibile alle esigenze di ammodernamento della società italiana. Tuttavia, non credeva che spettasse alla politica il compito di elaborare risposte ‘anticipate’ o esercitare compiti di orientamento culturale: i Partiti, le istituzioni e lo Stato debbono solamente ‘autenticare’ le situazioni bilanciando, pacificando e riequilibrando tutti gli interventi con estrema cautela, al fine di sottrarre la vita democratica del Paese da ogni genere di frattura. E questo, a mio parere, potrebbe essere il metodo migliore per rassicurare una buona parte dell’elettorato italiano e convincerlo a resistere a tutte le svariate ‘sirene’, populiste, qualunquiste o sterilmente protestatarie, che stanno per affacciarsi sullo scenario politico.


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Cristina - Milano - Mail - martedi 23 ottobre 2012 6.44
Sempre straordinari i suoi articoli, direttore.


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