Vittorio LussanaL’ouverture della politica italiana di inizio 2011 ha già inquadrato, figurativamente, lo scenario filmico del nuovo anno. In una stanzetta di Montecitorio, Gianfranco Fini vive i suoi giorni di incubo ‘post fiducia’ mentre attende gli ordini per una nuova missione. Nel suono vibrante di ‘The End’ dei Doors è presente il fermento della sensualità dissacratoria di Jim Morrison e di tutta la ‘rock culture’ degli anni della contestazione, mentre una voce fuori campo ci descrive l’ambiente mediante una citazione nostalgica del cinema letterario degli anni ‘40 e ’50 del secolo scorso. Le immagini in sovrapposizione e il confuso turbinare di elicotteri e di esplosioni rivelano una chiave di lettura di una situazione visionaria, sia nella struttura contenutistica, sia nel suo affresco formale. Quando Fini viene convocato per l’assegnazione dell’incarico, lo stile si fa più freddo e, mentre viene messo al corrente che il suo compito é quello di eliminare Berlusconi (ex imprenditore milanese divenuto condottiero di una imprecisata comunità guerriera denominata ‘Italia’) siamo quasi nello spy-system, in cui la ferrea necessità della missione va al di là di qualsiasi dubbio logico o morale. Come il Marlowe di Conrad si imbarcava alla ricerca del suo cacciatore d’avorio, essenza dello spirito imperialista e della tensione critica individuale, così Gianfranco Fini parte su una motovedetta ‘centrista’ a caccia dell’alter ego impazzito dell’imperialismo mediatico. L’equipaggio che ignaro lo accompagna rimpolpa il fascino caratterizzante della situazione: il comandante del gruppo, Pierferdinando Casini, fa da esecutore troppo critico degli ordini dei superiori; un Francesco Rutelli ‘figlio del blues’ si sgranchisce i muscoli ballando al suono di Satisfaction dei Rolling Stones; il baffuto senatore Baldassarri rimpiange il suo mestiere di economista; Italo Bocchino si rilassa partecipando a tutti i dibattiti previsti sui vari canali televisivi. É una fauna caricaturale assortita che serve a reggere l’atmosfera, dato che il protagonista, Gianfranco Fini, é già uscito dalla ‘dimensione’ della missione per entrare nella ‘trance’ del ‘quest’. Assorto tra gli incartamenti affidatigli, egli ricerca il suo Berlusconi prima ancora che fisicamente, a livello di entità umana. E via via che il gruppetto risale il fiume, sempre più analizza i dati del ‘personaggio-meta’ mitizzandolo, identificandovisi, interrogandosi sui contrasti etici tra irrazionalità riconosciuta e verità ‘di fondo’, sul fascino dell’uomo che lo aspetta al di là dei confini conquistati nel territorio dello scibile umano. La motovedetta diventa l’imbarcazione su cui vaga l’animo dell’italiano medio contemporaneo, compiendo una ricerca archetipica sottoforma di viaggio suddiviso in episodi epici di conoscenza ed errore. Il primo incontro di Fini é quello con la ‘follìa bellica’ del comandante Storace, colui che “ama il profumo del napalm la mattina, perché odora di vittoria…”, il quale, al suono delle Walkirie wagneriane, rade al suolo un centro sociale al solo fine di concedersi un’esibizione di surf. Poi c’é l’apparizione delle ‘conigliette’ di via Olgettina che, scese direttamente dall’elicottero di Mediaset intonando l’inno ‘Per fortuna che Silvio c’è’, consolano una guarnigione di militanti del Pdl mettendo a dura prova i nervi dei cinque terzopolisti. La tappa presso l’ultimo avamposto del centrodestra diviene un’altra occasione per trasfigurare l’allucinante realtà del dibattito politico italiano. Da qui in avanti, lo scenario sembra rarefarsi (si potrebbe dire, con l’onirismo di Stocker, che ci si addentra “dove il mondo diventa sogno e il sogno diventa mondo”): le azioni belliche restano anonime o anacronistiche; sparisce la coreografia della guerriglia politica e la voce recitante completa la tessitura dell’arazzo della ‘recherche’; il viaggio della coscienza approda alfine all’ultima spiaggia: villa San Martino, in quel di Arcore. Gianfranco Fini e i centristi sopravvissuti arrivano nella mostruosa 'tavernetta' delle feste di Berlusconi tra ‘lampadari’ umani grondanti di escort. “Voglio parlargli”, confida l’eroe a uno strampalato Bonaiuti, il quale si aggira inquieto tra veline e vecchie cariatidi del Partito. “Non si parla con Berlusconi: ascolti lui che parla…”, gli risponde quello, aggiungendo: “La sua mente é lucidissima, ma la sua anima è pazza”. Siamo ormai alla resa dei conti: la ‘guerra-spettacolo’ del bipolarismo italiano rivela tutta la sua essenza metafisica e l’incontro tanto atteso col ‘bonzo-Berlusconi’ si concretizza nel suo cranio ‘asfaltato’ che luccica nell’oscurità dello schermo. Fini é approdato all’oracolo dell’astrazione risolutiva. Berlusconi, nel suo universo farneticante, estrapola qualsiasi meccanismo istituzionale con finalità di potere mediatico. Il Cavaliere di Arcore, che declama Conrad ed Eliot, ha nel cuore il Bough di J. G. Frazer e From Ritual to Romance di Jessie L. Weston, legge la propria angoscia di vacuo dio della televisione commerciale che attende la liberazione dal potere. Il disgustato e affascinato Fini non può che compiere il suo dovere: “Lei è soltanto un garzone di bottega mandato dal droghiere a incassare i sospesi”, gli ha detto Berlusconi. Al rituale del popolo che immola un noioso Luca Giurato, egli (cor)risponde con il rituale dell’uomo che sacrifica un altro uomo e che, rifiutando l’assunto esoterico, rientra nei ranghi di singolo anonimo, di ‘garzone’ pronto a un’altra missione, certo bisognoso di un altro viaggio nella propria coscienza. Apocalisse politica come rivelazione, dunque, esteriore e interiore: l’esteriorità si realizza nel viaggio, nella truculenta descrizione dell’orrore della politica italiana e negli scompensi di tutti gli ambienti romani, mentre l’interiorità prende corpo man mano che la figura di Berlusconi prende forma. Alla ‘frontiera di troppo’ già sperimentata in ‘the Nam’ si sostituisce la frontiera dell’Io, oltre la quale cercare verità e morale per una società in piena crisi di valori. Stilisticamente, il nuovo anno s’incrinerà allorquando, dalle turbe del conscio, si passerà a quelle dell’inconscio, cioè quando dal surrealismo delle immagini veristiche (la protesta per la bocciatura del legittimo impedimento) si passerà a concretizzare le istanze della mente (la ‘mostruosa stagnazione’ del regno di Berlusconi e Tremonti). ‘Berlusconi-Moby Dick’ visualizza la tensione di un film estremamente pulsante di stimoli. Nell’atmosfera mistica in cui la luce delle fiaccole racchiude la notte di Arcore, la verbosità e l’effettismo realizzano un ‘salto magico’ e si fa strada, una volta di più, l’autocontemplazione ciclica dell’universo politico italiano. Il profilo ossuto e spiritato di Gianfranco Fini sembra stilizzare il volto enigmatico del primo Mitchum. La tromba che sigla la ‘carica’ de ‘La Destra’ di Francesco Storace ha il suono antico di quella delle giubbe blu dei western di Nelson e Penn; Paolo Bonaiuti ancora una volta fa da tramite agli intellettualismi per la cultura di massa; Berlusconi, infine, rinnova il confronto giovanile con Paul Newman e, come il Billy the Kid di Furia selvaggia, si staglia sulla porta illuminata in attesa della catarsi. E ancora, nella cornice dei brani musicali (The End dei Doors, che ritorna anche in chiusura) l’apocalisse si presta a una lettura ‘acida’ della politica italiana: l’incubo di apertura di Fini non ha fine, non smette di ossessionarlo. Il suo sogno orrendo continua per tutto il film, la Camera dei Deputati si dilata in un sottobosco cambogiano, in un’immagine filmica che abbraccia gradualmente lo spettatore in un ‘trip’ collettivo. La vicenda non terminerà con l’inquadratura della motovedetta in rotta verso casa, ma con i bagliori devastanti del bombardamento dei B-52 ordinato via radio – il codice è: onnipotente… - che faranno da sfondo ai titoli di coda. É questa la vera chiusura del film, che disperde nel surreale l’esplosione dell’ultimo avamposto di coscienza della politica italiana, quasi a concludere tragicamente il viaggio allucinatorio della seconda Repubblica.


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