La concezione classica di un'impostazione politica 'di sinistra' non è la libera e impegnata denuncia dei problemi strutturali di una società, per dirla alla Rousseau "dell'immane sforzo di sostenimento dal basso dello Stato", bensì quella di un vero e proprio sovvertimento dell'ordine costituito in base al nesso, fagocitante e tutto marxista, della lotta di classe, autentico 'macigno concettuale' teso a realizzare un socialismo di natura coattiva.
In Italia, il discorso ha indubbiamente subito una serie di mutazioni e strappi: essere di sinistra, oggi, risulta un concetto di mera solidarietà sociale, di estasi botanico-biologica, di sentimentalismo proletario: se mi si concede un paradosso storico, un qualcosa di molto più vicino al colonialismo portoghese che a quello britannico. La necessità politica di un militante di sinistra non è più quella di denunziare attriti e problemi sociali per superare le contraddizioni tipiche del processo produttivo - la nota 'funzione liberale della classe operaia' -, bensì quella di arrovellarsi intorno ad un perbenismo ipercritico che stenta a riconoscere cittadinanza ad una forma indipendente di pensiero libertario e illuminista, 'qualunquisticamente colto' ma mai prigioniero di bronzei schematismi ideologici.
Analizzando le profondissime problematiche culturali e d'identità di un centrosinistra dalle molteplici anime, anche per regolare definitivamente i conti con la soffocante questione della 'egemonia culturale', rimane ancor'oggi impossibile non affrontare il nodo di un 'italo-postmarxismo' - lo definisco in tal modo anche al fine di sottolineare, senza mezzi termini, la navigazione ancora incerta degli eredi del Pci rimasti a mezza strada tra "compromesso storico" e socialdemocrazia riformista -, che resta trattenuto, nell'analisi di numerose problematiche relative alla modernità, da un perdurante pregiudizio etico-moralistico di discendenza antindustrialista il quale, a sua volta, continua a privarlo, a parte qualche autorevole eccezione, della benché minima carica propositiva di superamento normativamente transvalutativo dei nuovi problemi derivanti dal sempre più rapido sviluppo tecnologico imposto dalla globalizzazione.
In sostanza, ancor'oggi i cattocomunisti mantengono un terrore di fondo nei confronti del progresso e della modernità distante anni luce dal tanto decantato scetticismo 'liberal' alla Bertrand Russell, il quale li obbliga a preferire il congelamento dei dualismi (sinistra/destra, progressisti/conservatori, corporativismo/solidarietà, buoni/cattivi, Nord/Sud del mondo) e delle doppie verità come viatico esclusivo di transizione cumulativa e continuata: una sorta di attraversamento del Mar Rosso che non intende affrettarsi a raggiungere la sponda opposta nella sciagurata convinzione che i muri d'acqua già miracolosamente creatisi continueranno a reggere in eterno, alternando vieppiù, in sede tattica, una prona accettazione del prezzo da pagare per il fallimento dell'analisi economica marxista - trascurandone altresì un'attenta rilettura dei presupposti sociologici meno idealtipici - ad una sorta di aristocratico disdegno nei confronti di una globalizzazione planetaria che, inevitabilmente, porta con sé nuove questioni da affrontare.
I mutamenti del costume, gli ambienti di lavoro, i problemi concreti dei cittadini rimangono, di conseguenza, burocraticamente supposti, mai veramente indagati nelle loro caratteristiche più profonde, abdicando a quell'analisi antropologico-sociale - alla Ferrarotti o alla Burnham, se si preferisce -, il cui sorvolamento viene poi maldestramente imputato proprio a quei partiti moderati che, per propria natura, non sono più di tanto inclini ad affrontare le modificazioni tipiche di una società massificata.
In base a tali 'lumi di luna', non ha dunque più di tanto senso, per gli italiani, sentirsi oggi dire 'qualcosa di sinistra', poiché essi, in quanto popolo da sempre capace di badare al sodo, hanno capito da tempo che la vecchia divisione ideologica destra/sinistra è solamente un feticcio, una 'casacca' da vestire in parlamento e null'altro.
E se proprio si vuole affermare qualcosa di moderno e di progressista, l'unica formula attualmente pensabile è quella di un'accettazione, senza incrostazioni ideologiche di ritorno, di nuove coordinate di preferenza basate su processi riformatori di lunga lena, antiburocratici, mutualistici, laburisticamente umanitari, in grado di mandare definitivamente in soffitta strumenti interpretativi lontani intere galassie da ogni riconoscibile ratio culturale nazionale, al fine di recuperarne dei nuovi di credibile fattura laico-riformista.
In un'analisi di tal genere, con sorpresa la sinistra potrebbe addirittura accorgersi che molte ingegnosità 'marxiane' potrebbero venir ribaltate verso una più equa direzione di sostegno del singolo individuo per la realizzazione di se stesso e per il suo concreto affrancamento dai vincoli convenzionalistici di una cultura generalista e tradizional-popolare anch'essa in difficoltà nei suoi tentativi di tenere sotto controllo i processi di modernizzazione e di sviluppo della ricerca scientifica.
Inoltre, potrebbe tentar di riprendere quel cammino verso un pieno dispiegamento di una cultura democratica italiana in grado di porla nelle condizioni di rinunciare a rappresentazioni stereotipate delle classi borghesi, spesso assolutamente speculative e di basso profilo, in favore di disegni e progettualità programmatiche più chiare e raggiungibili.
Tutto ciò non è affatto semplice da far comprendere appieno, me ne rendo conto. La vecchia abitudine di gran parte della sinistra nostrana è quella di rimanere gravemente ancorata alla zattera ideologica dell'antagonismo sindacale e recriminatorio per continuare ad avvinghiarsi intorno ad analisi critiche improntate esclusivamente alla creazione di 'figure di crisi', le quali, inevitabilmente, annichiliscono ogni tentativo di ritessitura di un canovaccio disinteressato di riforme di medio respiro.
Nella ciclicità di sviluppo di un capitalismo ormai più che maturo, determinate fasi congiunturalmente poco felici mantengono, tra l'altro, il rischio di riportare il dibattito verso i battuti sentieri di una stanca riproposizione di 'cattivi maestri', svilendo in tal modo qualsiasi sforzo di effettivo confronto intorno al nodo di una più attiva partecipazione dei giovani alla politica, anche e soprattutto a fini di un più celere svecchiamento delle classi dirigenti. Per certi versi, dimostra di avere una qualche ragione di fondo chi, come l'ex Capo dello Stato, Francesco Cossiga, continua ad insistere, in maniera giocosamente provocatoria, su soluzioni giuridiche di indulto per gli ex terroristi degli anni '70, al fine di chiudere definitivamente una pagina dolorosa della nostra Storia recente. Solo fuoriscendo tutti dalle vecchie logiche di un capitalismo sostenuto e foraggiato da uno Stato policentrico, infatti, anche il mondo dell'autonomia rivoluzionaria potrebbe arrivare a comprendere che è giunto il momento di rifuggire da quei pericoli di reclutamento da parte di qualche nostalgico 'Mangiafuoco della Rivoluzione', facendo finalmente emergere quegli aspetti artistici e originalmente soggettivi in grado di provocare un definitivo superamento delle ubbie anarcoidi che ancor'oggi sovrastano il mondo dei centri sociali, dando modo di inquadrare costruttivamente nuove prospettive di vita che vadano al di là delle obsolete sovrastrutture di generica protesta sovversiva.
Il compito di una compagine politica di sinistra non è, naturalmente, quello di gestire il mondo giovanile per integrarlo nel sistema - e, a modo loro, i ragazzi appartenenti all'area autonoma mantengono una propria specifica coerenza nel loro ostinarsi a rifiutare l'antiquata retorica delle masse popolari che lavorano alla costruzione di una società democratica organicamente compiuta -, ma di fornire risposte politiche in grado di portare a maturazione antropologica nuove schiere di individui fondamentalmente alla ricerca di quelle incentivazioni che rendano razionalmente ammissibili le necessarie formulazioni di sintesi strutturale tra Stato-governo e Stato-comunità.
Se questi ultimi comparti comunicano pochissimo o, addirittura, evitano di venire a contatto tra di loro come fossero due lontanissimi pianeti, la forza dialettica di una sana democrazia socialista finisce con l'annacquarsi nella classica 'brodaglia mistico-escatologica' dei figli in lotta contro i padri, la quale, per riflusso, annulla il valore laico di una politica in grado di rinnovare se stessa.
Altro che egemonia culturale, insomma: la sinistra italiana dimostra ancora una concezione piuttosto flebile della democrazia limitandosi ormai esclusivamente ad avviare il mondo dei giovani verso una cieca coazione al consumismo contrattualistico.
Sempreché, dire 'qualcosa di sinistra' non significhi semplicemente mandare 'al diavolo' l'occidente…

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