Antonio Di GiovanniChissà se i Guzzanti vorranno fare, in futuro, un sequel di ‘Fascisti su Marte’ ironizzando sul Pd e il resto della Sinistra italiana, dopo questa ennesima sconfitta elettorale. Anche perché, se continuano in questo modo a portare avanti le campagne politiche, non gli resta davvero che un'unica possibilità: andare su Marte. In questa cronaca di una disfatta annunciata, infatti, non è tanto il risultato del Pdl a fare notizia, quanto la perdita di consensi elettorali e il dissenso interno ai ranghi del Pd. Le raffiche di ‘batoste’ elettorali patite dai democratici sono la conseguenza di un malessere interiore, che serpeggia nell’identità del partito stesso. In effetti, il Pd ha assistito dapprima al suicidio politico della sua unica e ultima figura di leadership interna, Veltroni, e adesso è spettatore attonito di un segretario forse più battagliero che tuttavia appare come un generale ambizioso senza soldati. Franceschini invece di fare domande agli elettori se farsi o no educare i figli da Berlusconi avrebbe dovuto lavorare a proposte più serie e autenticamente alternative, da costruire con il consenso e la partecipazione diretta della base. Si percepisce, invece, alla radice della profonda crisi del Pd, come vi sia una frattura tra la percezione del partito presso gli elettori e quella che hanno i suoi organi dirigenti. Il Partito democratico, appena nato sembrava rappresentare una rivoluzione totale nel panorama della politica italiana, doveva essere un antipartito che rimediava ai guasti di quelli tradizionali. Ma questa era solo l’immagine comunicata all’esterno: ‘dentro’, il Pd è rimasto il solito miscuglio di correnti e nomenklature, di leadership deboli, incapaci di valorizzare la democrazia interna e proporre il Pd come un partito riformista, giovane, pragmatico, aperto. Franceschini avrebbe dovuto puntare più su una politica condotta con metodo innovativo, piuttosto che ripetere le solite e ormai desuete ‘filippiche’ antiberlusconiane. Un partito insomma che proprio non riesce a evitare che l’elettore sfoci nell'astensionismo, oppure nel voto di protesta a favore di formazioni di sinistra estrema, che non ha chance essendo diviso su tutto ciò che ideologicamente è divisibile. Non ci sono alternative per il segretario del Pd: o concilia le aspettative della base per una politica fatta in modo diverso con l’inerzia dei suoi dirigenti che aspettano solo di ritornare al potere o il partito è destinato alla chiusura anticipata. I comunisti, inoltre - è giusto stigmatizzarlo - hanno una vocazione innata all’estinzione per autodistruzione: Prc, Comunisti italiani e Partito comunista dei lavoratori sono il segno evidente dell’incapacità di raggiungere una sintesi attorno ad un progetto comune che non sia il solito antiberlusconismo. Anzi, qualcuno, un po’ sprovveduto, si ostina a fare la somma dei voti tra sinistra e centro sinistra adducendo persino che la loro totalità dimostra che quello del centrodestra sarebbe un governo di minoranza in Italia. L’unico problema è che le forze politiche che rappresentano l’alternativa alla destra sono divise. Quindi bisogna ricordare a certi improvvisati calcolatori che matematicamente una somma è una somma, ma una divisione resta sempre una divisione. Il Pd si dibatte nella contraddizione, mai risolta dal suo nascere, della confluenza di un partito post-democristiano che non vuole “morire socialista” e di un partito post comunista che non è mai stato in grado di dare un’autentica svolta socialdemocratica alla propria visione delle cose. Ed è evidente che questa empasse sta stancando l’elettore. Anzi, credo che dopo un simile risultato elettorale si possa tranquillamente parlare di ‘disaffezione cronica’. Si è detto e scritto che il Pdl  non poteva di sicuro avere credito in Europa in quanto partito vuoto di progettualità e di idee, fondato esclusivamente sulla persona del suo leader. Oggi, invece, dopo 15 anni dall’ingresso in politica del Cavaliere e con questa  ‘euroconsultazione’, il famoso ‘partito di plastica’, così definito dai più, è diventato un maturo e radicato partito di stampo europeo, pienamente integrato nella grande famiglia del Ppe, di cui rappresenta la delegazione numericamente più consistente. E si scopre, leggendo i numeri, che la vera ‘anomalia’ è quella di un centrosinistra, in particolar modo di un Pd, che non è ‘né carne, né pesce’, che non possiede una precisa e definita collocazione nel parlamento europeo, che risulta privo, insomma, di un’identità chiara e distinta, costretto a districarsi come un funambolo per tentare di convincere i partiti che fanno capo al gruppo socialista ad accettare una nuova denominazione pur di ospitare i suoi eurodeputati. In buona sostanza, Franceschini afferma che la componente progressista è composta soprattutto da socialisti, ma che il Pd non ha nessuna intenzione di entrare nel Partito socialista europeo, chiedendo in aggiunta la nascita di un nuovo gruppo parlamentare con socialisti e altre forze progressiste. E in Italia la situazione non è certo migliore, poiché il Partito democratico non ha effettivi margini di manovra: se tiene con sé Di Pietro non può comunicare con l’Udc, ma se cerca di agevolare la nascita di una forza di sinistra al suo interno resta sotto l’ipoteca comunista. Dunque, alla fine assisteremo ai suoni felici di un Franceschini intento a celebrare il ‘jazz funeral’ del suo stesso partito, una tradizione che affonda le proprie radici proprio in quell’Africa tanto amata dal suo predecessore.


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