Aldo Torchiaro

Ogni sconfitta porta in sé una sua stessa, intrinseca vittoria. Nella storia politica d’Italia, questa è stata la costante del mondo laico e riformista: sconfitti dalle urne per essere acclamati nei nodi centrali del sistema Paese, i laici si sono sempre scoperti più forti, dopo la débacle. Dissolte le organizzazioni politiche di riferimento, le intelligenze soggettive laiche e riformiste hanno sempre saputo districarsi benissimo. Il laico, per Bobbio, è infatti “il non conformista che ragiona con la propria testa; ha una volontà libera nel senso che si autodetermina”. Spesso prestandosi, al di fuori dell’organicità, a ruoli guida nel campo economico, culturale, istituzionale, di cui molti luminosi esempi, da Saragat a Valiani, da Spadolini a Ciampi, ci parlano della felice incongruenza tra qualità (politica) e quantità (elettorale). I numi tutelari della cultura italiana della seconda metà del Novecento ed un reggimento intero di riserve della Repubblica provengono da quelle nobili scuole. La storia del Partito d’Azione, del Psdi, del Pri va esattamente in quel senso. Le vicende anche più recenti della Rosa nel Pugno e degli ultimi socialisti confermeranno la medesima predestinazione. Sostenuti dalle ragioni della storia, titolari dell’unanime riconoscimento al merito della democrazia, i laici frequentano più agevolmente le sobrietà della sparuta minoranza illuminata piuttosto che i luccicanti fasti del trionfo. Spiazzati da un bipartitismo da Terrore, i cui furori premiano giacobini e Montagna a spese della Gironda, destinata alla ghigliottina delle urne, i laico-riformisti vivono da sempre una duplicità curiosa, sospesi tra clandestinità e solenni onori. Chi sono dunque i laici? Sconfitti felici della propria beata solitudo o al contrario, eretici ed irrequieti fiancheggiatori della maggioranza? Entrambe le cose, in virtù della legge dell’alternanza per cui ad ogni tornata elettorale corrisponde un giro di walzer per il bipolare mondo laico, incapace di presentarsi unito ed anzi vittima di una sindrome di Stoccolma collettiva: tanto nel Pdl quanto nel Pd, i laici, i liberali, i repubblicani, i liberalsocialisti si innamorano dei propri carcerieri. Stante l’impossibilità di evasione, viene alla mente un suggerimento: si produca, malgrado la cattività, una qualità politica in grado di opporsi alla trazione ed anzi trainare il guidatore. Tale da controllare il controllore e scrollare, come sempre è stato per analisi e capacità di programma, il torpore dei tutori del silenzio. Smuovere i possessori dei pacchetti di voti più corposi. Si potrebbe parlare, in questo frangente, di laicità debole e laicità forte. Se la prima si accontenta di assecondare il vincitore, premurandosi di abbaiare un po’ e solo quando necessario, al secondo gruppo è destinato un compito più importante. Essere il riferimento attivo e evidente di una idea diversa, raccogliere consenso per sé ed influenzare il proprio schieramento fino a incidere al suo interno in favore di scelte politiche orgogliosamente laiche, liberalsocialiste. I laici non sono cani da salotto: devono mordere, non scodinzolare. Se non mordono, si estinguono. La composizione di un esecutivo in cui Vito, Brunetta, Sacconi, Frattini e Prestigiacomo parlano il linguaggio che qui auspichiamo, non basta. Si rende ancor più necessaria la pressione del mondo laico “forte”: un’azione di verifica quotidiana del programma, senza concessioni. Sulla legge 40, sulla difesa della 194, sull’estensione dei diritti civili, sulla libertà di ricerca scientifica i laici veri dovranno essere intransigenti. Le categorie, destra e sinistra, alle quali ci aveva abituati la pellicola in bianco e nero del secolo scorso non ci sono più. Nuove frontiere della scienza, diritti della persona, bioetica, libertà individuali e collettive sono i nuovi set per chi esercita la governance. E nel mondo laico, seppur singolarmente dopo la crisi dei partiti organizzati, si deve decidere: indossare gli abiti del protagonista oppure consegnare il copione ed uscire di scena, per sempre.


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