Emanuela ColatostiJoe Biden e Kamala Harris si sono insediati definitivamente alla Casa Bianca. Al crepuscolo della mistica sacralità del potere, permane l’alone di un certo spiritualismo sul rito che ha accompagnato la ratifica di quella che, in ultima analisi, altro non è che un mero ‘passaggio’ burocratico. Con le cerimonie, in particolare con quella d’insediamento, si dà in generale ai popoli di tutti gli Stati democratici la possibilità di compartecipare emotivamente agli effetti dell’esito degli scrutini elettorali. Gli Stati Uniti sono una nazione in cui l’operazione burocratica per eccellenza è estremamente ritualizzata, per coinvolgere la partecipazione delle masse dei cittadini in misura anche maggiore rispetto agli altri Paesi. E se c’è una cosa che ogni volta rianima quell’invenzione, tutta romantica, che è il popolo, l’esecuzione dell’inno nazionale non può che accompagnare quasi ogni evento istituzionale. Lady Gaga, stella della musica, ha accettato con entusiasmo e commozione l’onere di cantare, a Washington, ‘Star Spangled Banner’. Come capitò con Beyonce e Mariah Carey, il brano passerà alla Storia. L’inno americano non ha la raffinatezza lirica del nostro, essendo stato scritto da un dilettante nella poesia. Francis Scott Key, l’autore, era infatti un avvocato, a differenza di Goffredo Mameli, che invece era tecnicamente un professionista del verso poetico metaforico. La musica del ‘Canto degli italiani’, invece, venne ideata da Michele Novaro. Inizialmente screditato da Giuseppe Mazzini, che lo considerava poco marziale e assai poco solenne, fu successivamente ‘benedetto’ da Giuseppe Verdi. La fortuna dell’inno ‘nostrano’ sta nell’orecchiabile rigidità del quattro quarti, su cui si spalmano intuitivamente i 'senari' dei versi. Ma in questa nostra ‘marcetta’ c’è la ‘magia’ incomparabile della nostra allegria, nonostante i tanti guai. Un magia che anche ‘Star Spangled Banner’ riesce a creare ogni volta che risuona nell’aria, come fosse in grado di aggiungere sostanze stupefacenti all’ossigeno inalato dagli ascoltatori: l’origine popolare del motivo che sottende alle parole di Francis Scott Key. Direttamente da un circolo di musica di Londra del XVIII secolo, la melodia dell’inno statunitense è firmata dall’Anacreontic Society della capitale di quello che, allora, era il potentissimo Impero britannico. Il riferimento al poeta della Grecia arcaica, Anacreonte, è indicativo per i temi musicati dal club della metropoli inglese, dominati da leggerezza ed edonismo. Il poeta originario della Tracia, tra giambi ed elegie, cercava di evadere dal clima politico molto teso della Grecia nella metà del VI secolo a. C., alle prese con lo strapotere persiano. Tenendo conto che l’anno di composizione di ‘The Anacreon Song’ è il 1776, unico cedimento dell’imperialismo britannico di fronte ai neonati Stati Uniti d’America, si spiega perché Anacreonte fosse tornato di moda nell’alta società londinese. Il motivetto, accattivante e ipnotico, della ballata, ulteriormente riadattata e rimaneggiata nel ‘Nuovo Mondo’, acquista una solennità sentimentale attraverso un cambio di ritmo: una curiosa coincidenza, che consente l’incrocio nella ‘Grande Storia’ tra la poesia di Francis Scott Key, la ballata ‘rococò’ d’ispirazione anacreontica e l’individualismo tipico della società statunitense. Se c’è un inno nazionale che arriva alle corde emotive di un ascoltatore qualunque quando viene cantato da una sola persona, piuttosto che da un coro, questo è proprio ‘Star Spangled Banner’. E la dimensione ‘corale’? Non pervenuta.





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