Raffaella UgoliniLe stime previsionali della Banca d'Italia, diffuse nei giorni scorsi, ci dicono che l'Italia è in 'recessione tecnica'. E che le previsioni di crescita del nostro Pil per l'anno in corso si abbassano allo 0.6%. Cosa significa tutto questo? Allora: la 'recessione tecnica' si ha quando il prodotto interno lordo di un Paese rallenta per più di due trimestri consecutivi. Cosa che, probabilmente, accadrà se i dati Istat di fine gennaio, quelli relativi al quarto trimestre del 2018, si confermeranno negativi. In tal caso, si comprenderà meglio anche un secondo elemento: non siamo di fronte a una fase ciclica negativa di carattere fisiologico, a cui può sempre seguire una ripresa, bensì a un dato recessivo vero e proprio, che renderà impossibile persino lo 0,6% ipotizzato in questi giorni. Le nostre previsioni di crescita per il 2019, stando ai nostri riscontri, sono invece più vicine allo 0,4% e niente di più. La qual cosa significa, come ha dichiarato lo stesso ministro dell'Economia, Giovanni Tria: "Stagnazione". C'era modo di fare qualcosa di diverso, nei mesi scorsi, da parte del Governo? Probabilmente, sì: si sarebbe potuto attendere almeno la seconda parte dell'anno per effettuare gli stanziamenti previsti sul fronte redistributivo o di riavvio del mercato del lavoro (reddito di cittadinanza), al fine di contrastare il rallentamento in atto attraverso investimenti maggiormente produttivi. Basterebbe fare un giro sulle nostre autostrade per notare la minor intensità di circolazione di Tir e autotreni: un segnale inequivocabile d'inversione di tendenza del ciclo economico e di accorciamento delle ordinazioni di merci. E per 'calo delle ordinazioni' non ci stiamo più di tanto riferendo al nostro mercato interno, bensì a quello delle esportazioni, che tradizionalmente si può considerare il nostro 'punto forte'. Eppure, alcune regioni del Paese, soprattutto nel nord-est, sono alla costante ricerca di una mano d'opera che non si trova. Può sembrare un paradosso, ma così non è: le imprese più grandi e meglio strutturate continuano a 'navigare' normalmente, mentre quelle piccole e medie sono in brusca frenata. Anche per queste tendenze c'è un termine tecnico: si chiama 'polarizzazione'. Ovvero, le imprese più grandi restano le uniche sul mercato, poiché nelle congiunture di crisi esse tendono a eliminare chi non riesce a stare al loro 'passo'. E' un fattore naturale dell'economia: una delle sue regole più antiche e basilari, che non consentono una reale vivacità del nostro tessuto produttivo. Le fasi economiche espansive, in genere, partono dal basso e non dall'alto: è la crescita delle aziende piccole e medie ciò che può contrastare il ciclo economico negativo, assorbendo la mano d'opera in esubero o inattiva. Invece, stando a quanto stabilito dalla manovra finanziaria approvata dal Governo Conte, questo processo non risulta neanche innescato. E anche il tentativo di una maggior redistribuzione di liquidità attraverso alcune formule, come per esempio il reddito di cittadinanza, non basteranno a ridar fiato ai consumi, se non quelli della grande distribuzione, da sempre abituata a 'galleggiare' anche in 'acque cattive'. Insomma, l'esecutivo 'giallo-verde' rischia di fallire non solo sul fronte della produzione di ricchezza, ma anche in quello della redistribuzione, che potrebbe non dare risultati significativi. Si rimarrà a mezza strada, come quando si è incerti su quale direzione prendere di fronte a un bivio e si finisce col rimanere inchiodati lì per lungo tempo, senza saper bene dove andare. Insomma, senza riuscire a cogliere alcun risultato 'pieno'. E di ciò, probabilmente, ce ne accorgeremo solo alla fine del 2019. Cosa succederà, di lì in avanti? E' ancora presto per dirlo, con le elezioni europee ormai in arrivo e l'onda populista montante. In ogni caso, populisti o non populisti, è proprio la nostra classe politica nel suo complesso a non sembrare minimamente all'altezza dei problemi che attanagliano il Paese. Ed è esattamente questo il dato che ci lascia nello sconforto più totale.


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