Alessio SpeldaSeguire un'edizione dei mondiali di calcio a cui l'Italia non partecipa è decisamente rilassante. Si osservano gli incontri con maggior distacco, ma anche con un ritrovato spirito di osservazione tattica. E non si può non notare il divario attualmente esistente tra il nostro calcio e quello degli altri: una differenza non incolmabile e tuttavia indiscutibilmente sensibile. Le partite che si stanno disputando a Russia 2018 denotano, innanzitutto, un 'gap' tecnico-tattico ormai praticamente colmato tra quelle che una volta venivano considerate 'squadre materasso' e le nazionali più blasonate. Probabilmente, il ricorso di Paesi come l'Iran e altri ad allenatori europei assai ricchi di esperienza e sagacia tattica ha diffuso nel mondo il 'verbo' migliore di questo sport, che non è affatto quello degli ingaggi 'faraonici', dei diritti televisivi e degli stadi monumentali come solo e unico modo per riqualificare le nostre periferie. L'Italia, in particolare, nel momento in cui ha cominciato a declinare il calcio soprattutto in termini di 'business' ha perduto la sua originalità e, in un certo senso, anche la sua 'decenza manageriale': la prima era dettata dalla capacità di scoprire e formare talenti all'interno delle nostre squadre di club; la seconda, ha subìto un vero e proprio 'tracollo', finendo con l'esprimere un panorama di presidenti e dirigenti societari a dir poco 'pittoreschi', se non addirittura ridicoli. Una sorta di provincialismo 'esterofilo' ha fatto il resto: anche se ci consideriamo lontani dalle idee di esponenti come Giorgia Meloni e altri su un 'calcio-giocato' che ormai schiera in prima squadra 10 giocatori stranieri su 11, il dato di una certa perdita di equilibrio appare evidente. Non formando più dei 'blocchi affiatati' di giocatori, come quelli della Juventus e del Torino degli anni '70, o quelli della Roma e del Milan negli anni '80, non si riesce più a costruire una nazionale con una propria identità, capace di portare certi 'meccanismi' immediatamente in squadra. In più, i bilanci delle nostre società calcistiche sono perennemente in 'rosso', ormai perduti in una ricerca costante di nomi altisonanti da acquistare sui mercati internazionali. A nostro parere, non sarebbe affatto un male andare a riscoprire una certa genuinità, completata dalla capacità di fare l'acquisto 'giusto' nel momento 'giusto' e per il ruolo 'giusto'. La Roma di Dino Viola riuscì a creare una bellissima sintesi tra talenti autentici, come quel Bruno Conti scoperto sulle spiagge di Nettuno, affiancati da un campione di spessore e di grande intelligenza tattica come Paulo Roberto Falcao. Un corretto equilibrio di ingredienti, insomma, che producevano una sintesi perfetta tra la nostra originalità e l'intelligenza di saper individuare un 'uomo-squadra', in grado di trascinare i propri compagni verso successi importanti. Tutto questo non c'è più. E la nostra rappresentativa nazionale ha finito col pagare un 'pegno' piuttosto salato innanzi a un simile vuoto di 'politica calcistica'. Avanzano gli altri. Persino le squadre africane. E noi siamo lì, in mezzo al 'guado', tra la sponda del 'vorrei ma non posso' e quella del 'non ricordo più come si fa'. E ormai temiamo che questo 2018 lo ricorderemo soprattutto per le tonnellate di 'pop corn' che abbiamo dovuto consumare nell'assistere a quello che fanno gli altri.


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