Ennio TrinelliIl teatro di Luana Rondinelli ci è piaciuto sin da subito per il pregio principale di aver fatto una scelta difficile: quella di esprimersi in lingua siciliana. Una preferenza che non consente di mettersi a 'tavolino' per studiare la battuta che si pensa colpirà più pubblico possibile, o il più direttamente possibile. E' un teatro che esplora la nostra cultura 'da dentro'. L'utilizzo dell'idioma siculo costringe l'autrice a farsi testimone e portatrice di una lotta, inconsapevole o meno, con ciò che dalla terra di provenienza del suo 'dialetto' emerge, di buono e di cattivo. Costringe a un raffinato lavoro sugli attori. E regala agli spettatori la possibilità di 'imparare' qualcosa di sconosciuto, che ha a che fare direttamente con la cultura più profonda di un popolo. Ci si arrabbia, in dialetto; si bestemmia, in dialetto; si grida in dialetto; si piange e si ride. E' un teatro che non regala nulla al pubblico, che 'rifiuta' ogni livellamento culturale, poiché la scelta stessa di recitare in siciliano lo impedisce. Luana Rondinelli è stata protagonista, dal 20 febbraio scorso, di una settimana di programmazione tutta dedicata alla sua drammaturgia tenutasi al 'Teatro Due' di Roma, all'interno della rassegna: 'Lei, attraversamenti di teatro al femminile'. Una manifestazione che si concluderà nella tarda primavera. Alla fine di una delle repliche, l'abbiamo incontrata e abbiamo raccolto l'intervista che oggi vi proponiamo.

Luana Rondinelli, lei è un'autrice che ha scelto l'uso della lingua siciliana: perché?
"Credo sia stato il dialetto ad aver scelto me. Il mio primo testo, 'Taddrarite', è nato d'impeto: una voce che sentivo e che doveva emergere. Un grido di passione tipico di qualsiasi dialetto".

I testi da lei rappresentati avrebbero la stessa valenza se fossero in lingua italiana?
"Penso di no: non avrebbero la stessa musicalità. Il 'ritmo' è diverso e i 'giochi di parole' son diversi. Il siciliano è una lingua che parte da dentro: per questo è così vera in scena".

Quanto facilita, o quante difficoltà in più crea, l'utilizzo del siciliano nei sottili racconti di discriminazione ed emarginazione radicati nella sua poetica?
"Crea difficoltà per la preoccupazione di non riuscire a far capire ogni singola sfumatura che in Sicilia, invece, trova terreno fertile. Ci sono delle 'confessioni', dei 'sottotesti', che solo chi conosce il dialetto percepisce fino in fondo. Ma fortunatamente - e il 'bello' è anche questo - l'emozione arriva dritta al cuore e la parola si spiega, s'intuisce, trasformando il dialetto in una musica da ascoltare senza troppe difficoltà".

Ci può fare qualche esempio?
"Il monologo di Mariannina in 'Giacominazza' è un gioco continuo di formule di parole, di doppi sensi in dialetto 'stretto'. Ma è talmente forte, emotivamente, che al pubblico lascia sempre qualcosa. Questo mi rincuora: la parola deve avere una sua forza dirompente. In dialetto, qualsiasi esso sia, come in italiano".

E' stata un'esigenza o una scelta razionale?
"Assolutamente un'esigenza".

Lei ha vinto il prestigioso 'Premio Fersen 2016' per la miglior drammaturgia teatrale: ci racconta com'è andata?
"È stata un'emozione molto forte: il premio Fersen ha dato nuova luce allo spettacolo che portiamo in giro per l'italia con Giovanni Carta, attore e regista di 'A testa sutta', già da alcuni anni. Quando la fondatrice, Ombretta De Biase, mi ha contattata per dirmi che avevo vinto il premio come miglior drammaturgia ero emozionatissima. 'A testa Sutta' è l'ultimo 'figlio' che, piano piano, si sta facendo sempre più spazio nel panorama teatrale, grazie anche alla forza e alla passione di Giovanni, che ha creduto in me commissionandomi un testo che lui interpreta magistralmente. Siamo andati insieme a ritirare il premio al Piccolo Teatro di Milano: un'emozione fortissima. Credo molto nel testo, in ogni singola parola. In questo copione ci sono io: le mie strade, le mie case popolari, la mia terra e le mie paure. E ci sono molte intuizioni di Giovanni Carta, precise e chiare. Tutto questo ha permesso, sia al testo, sia allo spettacolo, di 'esserci' sempre di più. In punta di piedi, ma con vivo orgoglio".

Da 'Taddrarite', grazie al quale lei ha vinto il Roma Fringe Festival 2014 come miglior spettacolo, fino a 'A testa sutta': cosa è cambiato?
"Taddrarite era il primo testo. E' stato scritto in nove mesi, come una gestazione: è stata un'esigenza. 'A testa sutta', pur essendo il più piccolo dei miei tre lavori, è quello più maturo, più pensato, più emotivamente 'masticato'. E' una tela bellissima, su cui ho potuto dipingere i colori dei miei ricordi".

Il futuro per chi fa teatro: lei come lo vede?
"Difficile, ma non impossibile. La caparbietà, la passione, l'amore per il teatro sono 'chiavi' vincenti. I sacrifici sono tanti, spesso si cade, o si vive in perenne disequilibrio. Ma nonostante tutto, il teatro vive e si fa. Ciò che vedo intorno a me è una continua lotta. Eppure, il teatro c'è, esiste e non demorde".

E qual è, secondo lei, la condizione della cultura, a Roma e più in generale in Italia?
"La situazione non è facile: questo lo si sa. Ma questa è anche una domanda che un po' mi 'spiazza', dal momento che il mio teatro, la mia piccola 'porzione' di teatro e la mia compagnia, si autofinanziano e vivono in autonomia. La mia è una piccola realtà: troppo piccola per interessare e 'smuovere' i meccanismi teatrali più importanti. Le piccole compagnie non hanno 'voce'. Ci si premia con lo sforzo che si fa per arrivare al pubblico: questo è il nostro compenso più grande".


Chi glielo ha fatto fare?
"Talvolta, me lo chiedo anch'io. Ma l'amore smuove ogni cosa...".



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