Così come Sofri rischia di essere infine considerato, dagli uni e dagli altri, solo un simbolo, venendo così deprivato, oltre che della libertà, anche della sua individuale storia, sofferenza, condizione di persona che vive una situazione di ingiustizia, così i detenuti in generale vengono spesso ridotti a un mero dato statistico. Ma essi non sono ombre indistinte: sono donne e uomini la cui vita e biografia non può essere interamente e unicamente appiattita sul reato che hanno commesso.
“Una volta che tu sia scivolato in un pozzo, la ragione che ti ha portato a scivolare cambia poco rispetto a quelli che hai trovato già lì in fondo, quelli sui quali sei caduto e hanno attutito il tuo colpo e i prossimi che arriveranno. C’è nella mia situazione una diversità? Sì, ma forse c’è in quella di tutti”. Così Sofri riflette in un’intervista (Rocca, 15 settembre 2003).
Certo, quelle donne e uomini hanno commesso errori, compiuto reati, talvolta violenze. Ma nella loro vita c’è anche altro, prima del reato e del carcere. Ci sono spesso violenze subite. Ci sono opportunità negate. Ci sono povertà cui sono stati condannati sin dalla nascita, come fosse un destino. Ci sono speranze e voglia di ricominciare a vivere, possibilmente in modo diverso. Ci deve allora essere anche un dopo il carcere. Un dopo nuovo e diverso. Ma questo, il cambiamento, non dipende solo da loro. Dipende anche dall’atteggiamento sociale. Dal superamento dei pregiudizi. Dalle possibilità concrete di avere quelle opportunità di lavoro, di formazione e istruzione, di abitazione che, il più delle volte, non hanno mai avuto.
Tuttavia, la vicenda di Sofri ha valenze assai particolari: rappresenta la cartina di tornasole della mancata risoluzione delle vicende degli anni Settanta. Che questo sia il non detto, lo spirito di revanche che si agita sullo sfondo, lo si coglie soprattutto negli argomenti e nei toni delle forze politiche che alla grazia si oppongono: Lega e Alleanza nazionale in primo luogo.
Scrive Aldo Cazzullo: “L’assassinio di Luigi Calabresi è il primo anello della catena. È lo sparo che riaccende la guerra civile italiana, combattuta con le armi nel biennio 1943-1945, rinfocolata sulle piazze nel tempo della guerra fredda, e poi mimata a cavallo tra gli anni 70 e gli anni 80” (Il caso Sofri, ed. Mondadori, 2004).
Ecco allora che la grazia a Sofri, oltre che un necessario riconoscimento della sua vicenda personale, dell’inutilità e ingiustizia della sua carcerazione che dura ormai da otto anni, potrebbe e dovrebbe costituire un punto di partenza, non d’arrivo. Una premessa, da un lato, per un percorso di umanizzazione delle carceri e delle pene e, dall’altro lato, per un processo di superamento e riconciliazione rispetto ai conflitti e alle ferite degli anni Settanta, che ancora pesano sulla società italiana e sullo stesso assetto ed equilibrio istituzionale, oltre che sulla memoria e i sentimenti di chi è stato colpito.
Anche in questo senso, non è solo interpretativo il conflitto che contrappone il Quirinale e l’attuale ministro della Giustizia; rimanda, più in generale e simbolicamente, a profonde differenze culturali, morali e politiche: l’una ancorata a un’idea della legge e della giustizia come strumenti di promozione della convivenza, l’altra irrigidita in un sentimento rancoroso e votata a un garantismo a senso unico che, paradossalmente, richiama una logica di uso politico della giustizia.
La coerenza di Adriano Sofri è innegabile e inossidabile. Più delle sbarre che lo tengono ingiustamente e irragionevolmente prigioniero da troppi anni. L’auspicio è che, sulla scia dell’iniziativa di Ciampi, altri pezzi delle istituzioni e dei partiti vogliano aprire quelle sbarre e, indirettamente, contribuire a restituire alla politica un profilo più alto e più umano. Più alto, perché più umano.

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