Silvia MattinaGli interrogatori e le dichiarazioni rese agli inquirenti dagli esponenti politici capitolini coinvolti nello scandalo di 'Mafia capitale', al di là della loro attendibilità rappresentano l'ennesimo grido di dolore nei confronti di una 'città eterna' da sempre circondata da parassiti senza scrupoli. Per interi decenni, siamo stati tutti convinti che alcuni difetti tipici dei romani, la loro pigra indolenza e la tendenza ad aggirare norme e divieti, fossero semplicemente un risvolto della loro 'simpatia creativa': un qualcosa di fantasioso e pittoresco. Un'indulgenza che, in realtà, rappresenta la vera causa antropologica delle gravissime condizioni in cui versa la città dei 7 colli. Roma proprio non riesce a stare al passo con le altre grandi metropoli europee, né ad affrontare alcuni suoi problemi cronici con la lungimiranza urbanistica e sociale di Madrid o della stessa Parigi. E' un vero peccato, poiché la nostra capitale possiede il più grande patrimonio storico, culturale, monumentale e archeologico del mondo intero. Com'è possibile non si riesca ad arginare in nessun modo l'avidità dei quei gruppi di potere che l'hanno sempre gestita in base a una mentalità arretrata, maldestra, paurosamente opportunista e profittatrice? La Roma di oggi rappresenta un esempio del tutto atipico di megalopoli totalmente priva di una vera e propria 'area metropolitana'. Il territorio di pertinenza comunale si estende per più di 150 mila ettari: un'enormità rispetto ai 19 mila di Milano e ai 13 mila di Torino. Un'area gigantesca, non sempre dotata di una 'frangia semiurbanizzata', affetta da un parassitismo incurabile, totalmente priva di infrastrutture economiche o di autonome capacità produttive. Sin dai tempi dello Stato pontificio, la città vive di redditi importati e non conosce praticamente nulla del capitalismo moderno. Dopo averla circonfusa con un 'goffo' alone di maestà, il regime fascista, ormai allo stremo, mediante una legge emanata nel 1941 tentò di dotarla di una zona industriale formata dai comprensori di Tor Sapienza, lungo la via Tiburtina e di Grotte Celoni, sulla Casilina. Ma tutto rimase sospeso a causa del conflitto mondiale e, nell'immediato dopoguerra, quando i primi Consigli comunali della nuova epoca repubblicana decisero di riprendere in mano la questione, solo dopo lungaggini interminabili riuscirono a varare un piano particolareggiato di opere pubbliche. Ma quel provvedimento arrivava con un ritardo tale che i termini delle agevolazioni fiscali, tesi a favorire nuovi investimenti nelle aree depresse, erano ormai scaduti. E nessuno si sognò di rischiare danaro in favore di 'lande desolate', che tali rimasero per altri lunghissimi decenni. A causa di ciò, Roma non ha mai potuto possedere delle vere e proprie industrie in grado di assorbire il suo irrimediabile tasso di disoccupazione. Sin dal 1870, l'area è stata investita da possenti ondate migratorie, ma essendo totalmente sprovvista di ogni 'valvola di sfogo', ben presto è diventata la vittima designata del piccone e della cazzuola: ogni singolo metro quadrato di suolo è stato considerato fabbricabile; case e palazzi hanno iniziato a protendersi verso l'alto nella più totale assenza di vincoli urbanistici e nella più allegra inosservanza delle poche norme vigenti, provocando l'assurda dilatazione a 'macchia d'olio' dell'abusivismo. Già durante il fascismo, quando gli 'sventramenti' di Marcello Piacentini avevano espulso brutalmente i ceti popolari dal centro storico, iniziarono a sorgere, lugubri e malsane, le 'borgate', quelle descritte con tanto dolore da Pier Paolo Pasolini: seguendo il modello di Acilia, scaraventata, nel 1924, all'interno di una 'sacca malarica' lungo la via Ostiense, tra il 1930 e il 1940 l'Istituto per le case popolari e altre società immobiliari hanno costruito i quartieri di Villa Gordiani, Valmelaina, Tufello, Tiburtino III, Pietralata, Quarticciolo, Trullo, Primavalle. Tutti arcipelaghi sconnessi, urbanisticamente incoerenti, ai quali sono stati in seguito affiancati i reclusori, assolutamente abusivi, di San Basilio, Prenestina, Torpignattara, Tormarancio e Centocelle. Deputate ad accogliere gli immigrati più poveri, tali borgate non vennero affatto 'addossate' alle ultimi propaggini della città, bensì furono separate da lunghe strisce di verde 'brado'. Terreni che, in seguito, cominciarono a salire di prezzo, scatenando una speculazione edilizia senza scrupoli. Se si considera che, tra il 1945 e il 1975, Roma è stata invasa da circa due milioni di italiani provenienti da ogni parte del Paese, in particolare dalle regioni del Mezzogiorno, si può ben comprendere come certi suoi 'acciacchi' abbiano finito col generare una situazione complessiva assolutamente invivibile, che ha totalmente privato la città di un proprio quadro sociale effettivo. Ogni rione è divenuto un satellite a sé stante. E le periferie rappresentano solamente degli enormi 'quartieri dormitorio'. Quei due milioni di nuovi romani giunti dall'Abruzzo, dalla Campania, dalla Calabria e dalla Sicilia dovettero dunque adattarsi all'offerta di lavoro propria di una megalopoli di burocrati, consumatori e turisti: il 60% entrò nell'amministrazione dello Stato; il 16% venne impiegato nei settori del commercio e dei trasporti; il restante 24% non poté far altro che lasciarsi assorbire dai sempiterni e onnipresenti cantieri edilizi. L'arretratezza delle attività terziarie ha permesso loro, talvolta, di perpetuare l'artigianato delle regioni di provenienza, per cui gli abruzzesi sono diventati calzolai; i molisani arrotini; i sardi pasticcieri e così via. Ma se si eccettuano coloro che sono entrati a far parte della pubblica amministrazione - in larga maggioranza siciliani - buona parte di quegli immigrati ha dovuto obbligatoriamente adeguarsi alla precarietà stagionale del mestiere di muratore. Una città come Roma, ricca di un ghiotto bottino di parchi privati e con un patrimonio storico senza eguali, composto di innumerevoli beni artistici e archeologici da salvaguardare, necessitava di un piano regolatore che ne salvasse le ultime vestigia dagli artigli di costruttori e 'palazzinari' senza scrupoli. Anche perché, orrendi agglomerati 'intensivi', già dagli anni '50 del secolo scorso, l'hanno letteralmente afferrata 'alla gola', mentre una lottizzazione selvaggia delle aree prospicienti l'Appia antica segnalava come certi ricchi della 'Roma bene', ormai stanchi e disamorati dei Parioli, si fossero fatti costruire delle ville lussuosissime, incastonando tra le pareti numerosi ruderi archeologici ritrovati in mezzo ai prati. Ecco perché, nel 1954, il Consiglio comunale decise finalmente di incaricare un Comitato tecnico - formato da ottimi urbanisti quali Ludovico Quaroni e Luigi Piccinato - con il compito di anticipare i nuovi lineamenti di una razionale 'capitale del futuro'. Nel novembre del 1957, il nuovo piano era pronto: per rompere l'accerchiamento delle speculazioni, arrestare la 'macchia d'olio' dell'abusivismo edilizio e alleggerire il peso insostenibile della mole di servizi che gravava, quasi interamente, sulla 'città vecchia', esso prevedeva un'espansione verso sud-est da realizzarsi attraverso una grande arteria di scorrimento munita di centro direzionale. Inoltre, allo scopo di dirottare un traffico in entrata e in uscita interamente 'scaricato' - esattamente come oggi - sulle strade 'consolari', quel piano disegnava un sistema viario imperniato sulla costruzione di un primo tratto dell'attuale Grande Raccordo Anulare e, nell'intento di porre un freno al saccheggio dei parchi 'massacrati' (Villa Chigi, Villa Savoia, Villa Torlonia, Villa Doria Pamphili) imponeva una conservazione rigorosa di tutto il centro storico, oltre a una serie di espropri di pubblica utilità. Quel 'piano' non era stato nemmeno presentato ufficialmente, che subito alcuni esponenti degli 'interessi lesi' inscenarono una mezza sommossa: i commercianti gridarono alla spoliazione; la 'Società generale immobiliare' si 'stracciò le vesti', accusando il Comitato tecnico di attentare alla proprietà privata; gli enti ecclesiastici, che da secoli possiedono alcuni 'feudi' alla periferia occidentale (in particolar modo i Salesiani) spronarono i propri 'protettori' in Campidoglio. Risultato: l'allora maggioranza consiliare, costituita da democristiani, liberali, monarchici e missini, negò a quel piano la propria approvazione e, nel giro di due anni, ne fece predisporre un altro, redatto da 'docili' funzionari, il quale avviava uno sviluppo urbanistico verso sud-ovest, in 'direzione mare', mantenendo la strutturazione 'monocentrica' della città, riducendo il progetto di costruzione dell'anello autostradale a mero segmento della 'Autosole', nonché approvando un sostanziale accrescimento della città per 'addizioni spontanee' che 'santificarono' definitivamente la crescita a 'macchia d'olio' con una gigantesca 'sanatoria' di tutti gli scempi compiuti. Dopo lunghi anni di massacri inauditi e solamente 'all'alba' del 1962, una nuova amministrazione di centrosinistra riuscì ad approntare un piano regolatore finalmente ragionevole, che introdusse criteri sino ad allora sconosciuti alla storia urbanistica della città: il principio della 'destinazione d'uso', con il quale si obbligarono i piani particolareggiati a specificare le attività consentite nelle diverse zone (centro storico, trasformazione edilizia, ridimensionamento viario e così via); il parametro della 'superficie utile', che permise di eliminare gli innumerevoli 'trucchi' legati al cosiddetto 'rispetto dei volumi', prescritto nel 1959; il concetto di una progettazione unitaria per comprensori, da attuarsi mediante consorzi fra i proprietari in ossequio a precise norme riguardanti la densità e la percentuale dei suoli assegnati a residenza, o a servizi quali scuole, strade, verde, asili, ospedali e parcheggi. Ma anche quei buoni propositi valsero a poco: il ricorso continuo a uno stillicidio di varianti, la macchinosità delle procedure, la sfacciata violazione delle regole, fondata sul convincimento che nulla di ciò che era già stato costruito potesse essere demolito, vanificò quell'ulteriore 'piano' e, nel 1964, i romani furono addirittura costretti ad assistere alla devastazione del parco di Castel Fusano e alla trasformazione in zona residenziale del recinto della tomba di Cecilia Metella. Tali vicende dimostrano ampiamente come la capitale d'Italia sia sempre stata gestita attraverso una concezione della legalità piuttosto 'vaga'. E che Roma sarebbe una città straordinaria, se non ci fossero i romani...


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