Il problema cardine riguardante il terrorismo concerne la mancanza di una definizione esauriente del fenomeno, universalmente o, quantomeno, regionalmente recepita. Questo problema è solo in parte aggirabile perseguendo i singoli reati commessi nel contesto terroristico quali violazioni, tout court, del diritto penale e delle leggi di pubblica sicurezza. Senza un inquadramento del fenomeno terroristico nel suo insieme è arduo impostare un’efficace e sistematica politica di sicurezza e di contrasto, la quale richiede costanti processi di valutazione e di analisi.
Questa considerazione vale sia a livello nazionale, cioè dei singoli Stati, sia a livello internazionale.
Infatti, ben pochi ordinamenti giuridici nazionali definiscono il terrorismo e, presso alcuni di questi ordinamenti, i principali enti preposti al contrasto lo configurano in modi difformi l’uno dall’altro.
Opera, altresì, a livello internazionale, una contrastante percezione del fenomeno dovuta, almeno in parte, alla diversa portata della minaccia. Ad esempio, gli Stati Uniti d’America temono soprattutto il terrorismo internazionale, mentre molti altri Stati, in base alla propria esperienza, temono principalmente quello interno.
La diversità di percezione, ancorché basata su fatti concreti e non solamente su calcoli d’interesse nazionale, indebolisce o paralizza l’auspicabile risposta collettiva ad un fenomeno che spesso, e da tempo, non conosce precisi confini.
Le stesse convenzioni e protocolli internazionali, inclusi i 12 accordi maturati in sede dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, non distinguono nettamente tra atti terroristici e reati di altra natura e, per opportunità politica, volutamente tralasciano la definizione. Inoltre, il recente tentativo dell’Unione Europea di delimitare il terrorismo non è andato oltre l’elencazione dei reati che possono essere commessi in un contesto tanto terroristico quanto di criminalità organizzata.
Ciò premesso, vengo dunque a proporre su questa autorevole testata di analisi e ricerca, una “descrizione funzionale” del fenomeno, impostata su osservazioni empiriche: il terrorismo è una forma di conflittualità non convenzionale caratterizzata dalla violenza criminale, dal movente politico, politico-confessionale o politico-sociale e da strutture e dinamiche clandestine. Questi tre caratteri essenziali permettono, almeno nella stragrande maggioranza dei casi, di distinguere il terrorismo da altri fenomeni, ancorché intimidatori o ‘terrorizzanti’. Particolarmente inquietante e controproducente è il fatto che taluni commentatori non distinguano minimamente tra terrorismo e criminalità organizzata. Pur senza diminuire la minaccia rivolta da entrambi i fenomeni nei confronti della sicurezza nazionale o collettiva, i rispettivi fini e, spesso, le dinamiche sono ben diversi.
Le misure di sicurezza atte a contrastare o quantomeno, ipotesi più realistica, a ridurre l’incidenza e l’impatto del terrorismo sono molteplici, anche se frequentemente di non agevole attuazione. Parimenti, alla definizione del terrorismo, gli strumenti giuridicamente e tecnicamente rilevanti nell’opera di dissuasione, prevenzione, repressione e contenimento del terrorismo interno e internazionale sono controversi, talvolta nella sostanza e, non di rado, nell’applicazione. Una panoramica ragionata degli strumenti di contrasto non può che includere i seguenti: intelligence, apporto dei cittadini e organizzazioni private, professionalità nei mass media, preparazione tecnica del personale assegnato agli enti statali competenti per materia, impostazione antiterroristica equilibrata e coerente, accordi internazionali, diplomazia, sanzioni economiche e di altra natura, collaborazione bilaterale e multilaterale, ruolo appropriato delle forze armate e operazioni speciali saggiamente mirate.
Data la delicatezza del momento storico, rivestono particolare importanza le indications and warning intelligence, ovvero l’intelligence di prevenzione basata su di una serie di indicatori (segnali di avvertimento e di pericolo), che richiede ulteriori raffinamenti, specialmente nei confronti di manifestazioni effettive o ipotetiche di “neoterrorismo” (ad esempio il terrorismo nucleare, radiologico, biologico e chimico, nonché quello informatico) e la sensibilizzazione dell’opinione pubblica, ausilio indispensabile per il controllo del territorio e per un’efficace impostazione antiterroristica. Va parimenti notato che, nonostante i benefici potenzialmente derivabili dalla collaborazione multinazionale, considerevole enfasi merita la collaborazione bilaterale le cui dinamiche più facilmente rientrano nel concetto pragmatico di do ut des, do ut facias, do ut pati. Mentre tutti gli strumenti legittimi rivestono pari dignità, non va dimenticato che l’apporto dell’intelligence non può che essere debole in assenza di garanzie funzionali per gli operatori del settore.
Le difficoltà riscontrabili nell’opera di contrasto non debbono offuscare gli importanti progressi raggiunti. Vanno annoverate, nell’ambito dell’Unione Europea, le iniziative riguardanti il mandato di cattura internazionale, l’impiego di squadre investigative congiunte, varie forme di coordinamento (anche a livello d’intelligence) e, particolarmente, l’introduzione di un elenco aggiornabile delle organizzazioni terroristiche. Per troppo lungo tempo, determinati strumenti hanno fatto parte di un repertorio antiterroristico quasi esclusivamente d’impostazione USA: ad esempio, le terrorism lists (state sponsors of terrorism, foreign terrorist organizations, terrorist financing e terrorist exclusion), il antiterrorism assistance program e il rewards for justice program. La concentrazione di tali strumenti nelle mani di una singola potenza genera, in buona o malafede, l’impressione di un contrasto unilaterale e sospetto. Inoltre, tale concentrazione priva la comunità internazionale di un apporto di Stati che, in numerose circostanze, potrebbero mettere a disposizione specifiche competenze storicamente e geopoliticamente maturate.
Pur in presenza di una maggiore collaborazione internazionale, realismo impone un riconoscimento del fatto che fintantoché gli Stati rimarranno i principali attori sulla scena internazionale, i principi della sovranità nazionale e dell’interesse nazionale continueranno a prevalere. Infatti, recenti studi di matrice pubblica e privata (curati, ad esempio, dallo United States General Accounting Office e dalla RAND Corporation) confermano che, anche a seguito di una minaccia sostanzialmente multidimensionale e multidirezionale, quale quella posta da al Qaida l’11 settembre 2001, gli Stati hanno generalmente riveduto e aggiornato i loro piani e/o strumenti di contrasto al terrorismo su base fondamentalmente nazionale.
Sotto l’aspetto pratico, è altrettanto istruttivo notare che, in diversi casi esaminati, le autorità competenti hanno allocato le risorse disponibili basandosi sulla probabilità o meno di attacchi terroristici, piuttosto che su criteri riguardanti l’effettiva vulnerabilità del proprio territorio nazionale e dei propri cittadini. In assenza di un vero e proprio equilibrio tra misure di sicurezza nazionali e collettive, ciascuno Stato dovrebbe ragionevolmente curare le proprie difese assicurando contemporaneamente la propria disponibilità nei confronti di iniziative internazionali.
Senza entrare nel merito di bilanci, conti, profitti e perdite, operazioni bancarie e imprese di copertura, ritengo opportuno fare un breve cenno anche alla questione della lotta anti-terroristica con l’ausilio di strumenti d’indagine finanziari.
Come noto, le aggregazioni terroristiche (oggi in particolar modo numerose quelle ispirate dal radicalismo islamico) spesso dispongono di una struttura binaria: da un lato, alla luce del sole, per la condotta di iniziative finanziarie e commerciali, opere assistenziali e proselitismo, dall’altro lato, in via del tutto clandestina, per la progettazione ed esecuzione di attività eversive e violente. Questo meccanismo facilita, inter alia, il trasferimento di fondi ed altre risorse sovente provenienti da fonti inconsapevoli e innocenti.
Tale sviluppo ha dato vita al concetto di “privatizzazione” del terrorismo, concetto solo parzialmente corrispondente alla realtà. Infatti, rimangono ancora in piedi Stati sostenitori del terrorismo, seppur indeboliti. Ma, oltre agli Stati qualificati “patroni”, andrebbero accuratamente esaminati, altresì, elementi della compagine governativa di Stati autoritari del Terzo Mondo, che senza impegnare il proprio regime fungono da cintura di trasmissione.
A fini di sicurezza, si può dunque concludere che solo eccezionalmente un singolo strumento di contrasto al terrorismo può rivelarsi determinante o prestarsi ad un proprio impiego esclusivo, oltreché sottolineare le numerose esigenze di programmazione, con debito anticipo, mediante mezzi di contrasto concreti, di reciproco rinforzo e coordinati fra loro.



Docente di Intelligence e Security presso il Link Campus, sede romana dell’Università di Malta. Autore di Introduzione al Terrorismo Contemporaneo (1998) e curatore e coautore di Conflitti non Convenzionali nel Mondo Contemporaneo (2002). Già consulente della Commissione per il Terrorismo e la Sicurezza del Senato degli Stati Uniti e revisore dei corsi offerti dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti nell’ambito del Programma di Assistenza Antiterrorismo.
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