Gaetano Massimo Macrì'Mafioso romano' è un'espressione che non si può sentire. La mafia è un fenomeno nato, cresciuto e 'pasciuto' al sud. La sua internazionalizzazione altro non ha prodotto che l'espansione dell'organizzazione, non già nuove versioni della stessa. Anche la mafia americana, in fondo, non è mai stata considerata 'altro' rispetto a quella d'origine. Non è mai esistita, per intenderci, una mafia a stelle e strisce, intesa come tipico prodotto di quel Paese. L'inchiesta su 'Roma Capitale', invece, per le modalità con cui se ne sta parlando sui media sembra un chiaro fenomeno di 'inculturazione', una forzosa imposizione dall'alto di concetti ormai acquisiti da tempo, 'spodestati' dal luogo di origine - quel meridione dove il mafioso è nato - per essere ripresentati in salsa capitolina. Questo tentativo di semplificazione forzosa ha generato, appunto, espressioni come 'mafioso romano', o giochi di parole tra lupa e lupara. Mettere sullo stesso piano l'ex Nar Carminati o il suo sodale Buzzi con Don Vito Corleone o, per rimanere ai giorni nostri, Bernardo Provenzano non sembra corretto: i mafiosi 'veri', sia quelli reali che 'romanzati', sono fatti di ben altra 'pasta'. Soprattutto, sanno parlare. Carminati, invece, nella famosa intercettazione in cui spiega la sua teoria del "mondo di mezzo", a metà strada tra quello dei vivi e quello dei morti dove lui e quelli come lui si troverebbero, da ex-fascista finisce col maltrattare un 'testo' che per anni è stato considerato 'vicino' agli ambienti di destra: ci riferiamo al 'Signore degli anelli' di Tolkien, dove la 'Terra di Mezzo', invece, è il luogo dei vivi. Se questa criminalità organizzata romana dev'essere assimilata alla mafia, allora diciamola tutta. Più che lupa e lupara, dovremmo usare un altro termine romano o romanesco: il pecorino.



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