Carla BenedettiDroga leggera sì! Droga pesante no!
Questo l’imput mediatico che ci arriva dal mondo politico e sociale. Ma se affrontiamo con responsabilità il problema della tossicodipendenza, ci rendiamo subito conto che, per i giovani in età adolescenziale, è facile avvicinarsi alla droga per ragioni complesse sulle quali troppo spesso si tende a sorvolare e che vanno dai disagi psicologici non decodificati, alla ricerca della trasgressione, alla ricerca dell’identità individuale o di appartenenza al gruppo.
Una società adulta e sana deve essere in grado di valutare i rischi che corrono i nostri giovani, i quali, dev’essere ricordato, rappresentano il futuro della nostra società.
Sarebbe pertanto necessario e urgente - vista la crescita esponenziale delle tossicodipendenze -, rivedere il concetto della differenza tra droghe cosiddette leggere e pesanti.
Sappiamo, scientificamente molto bene, che gli effetti che provocano tutte le droghe sono devastanti e, comunque, distruttive. Coloro che discettano su questo problema con molta disivonltura ‘camuffandosi da moderni’, dovrebbero ampliare le proprie scarse conoscenza al riguardo. Questo grave e preoccupante fenomeno sociale, dunque, deve essere affrontato.
Innanzitutto, deve mutare la percezione dei bisogni dei nostri giovani. Bisogna offrire modelli di coerenza, credibilità e verità, unite al coraggio di noi adulti di mostrarci umanamente per quello che siamo, senza nasconderci dietro le ‘maschere’ dei ruoli, senza paura nella realtà dei nostri limiti. Altrimenti, i nostri giovani non sapranno mai chi sono veramente questi adulti e come ci si diventa.
L’approccio: droga leggera sì, droga pesante no, non può, altresì, vedersi ridotto ad una posizione politica di destra o di sinistra. E dev’essere anche detto chiaramente che molti ‘tuttologi del lassismo’ travestiti da ‘politically correct’ non intendono prendersi la responsabilità di scrollarsi di dosso ideologie e metodologie cristallizzate, che li tengono prigionieri di una mentalità che non consente loro una sana e matura prudenza, atta a far crescere una società consapevole e pensante, libera da comportamenti disumanizzanti, e consapevole dell’obbligo morale di fornire risposte sociali adeguate alle problematiche della realtà.
Ma che cosa vuol dire interpretare il disagio dei giovani? Semplicemente, saperlo intercettare al fine di trovare quelle soluzioni in grado di risolvere le ansie e le angosce del presente, dallo studio ai conflitti familiari, alla scarsa speranza verso un futuro lavoro, per poterli aiutare, anche e soprattutto psicologicamente e culturalmente e non solo viziandoli con beni di lusso o di consumo, a trovare dentro se stessi le soluzioni adeguate.
I modelli imposti dall’attuale società ricalcano spesso il principio ‘mors tua, vita mea’.
Questo tipo di atteggiamenti spinge i giovani verso una spirale depressiva alimentata dall’indifferenza e dalla sottovalutazione dei loro bisogni, e proprio questi atteggiamenti ci impediscono quella comunicazione costruttiva che ci aiuterebbe a comprendere meglio i significati più profondi del loro disagio. I nostri giovani hanno il diritto di essere amati e di essere condotti sul sentiero di un’equilibrata crescita emotiva e affettiva, che sappia rispondere al principio ‘vita tua, vita mea’. Lo sforzo da compiere è perciò nella direzione della comprensione umana e non in una mera logica punitiva, che aumenterebbe le distanze impedendoci, alla fine, di capire. Il problema politico-sociale più concreto è infatti quello di difendere un rinnovato quadro di valori troppo spesso dimenticati o banalizzati, che ci riporta inevitabilmente a rivedere i rapporti umani sotto un’ottica di contenuti e delle forme di espressività affettiva. Non possiamo arrenderci ad una deriva di individualismo narcisistico e di indifferenza sociale. Tuttavia, per tali motivazioni, nemmeno l’eccesso opposto del permissivismo può rappresentare una soluzione valida: non lo è stato neanche per quei Paesi che lo hanno adottato, e non lo sarà mai.


Psicoterapeuta
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