Ilaria CordìL’Italia si sta preparando alla presidenza del semestre europeo cercando in essa il punto di svolta da cui ripartire, dato che da anni il nostro Paese arranca nel raggiungere quegli obiettivi che ‘Madre Europa’ ci ha imposto. Cominciamo dalle basi: il semestre europeo prevede un preciso calendario, secondo il quale gli Stati europei facenti parte dell’Unione riceveranno consulenze e orientamenti per poi esporre i piani di riforma e di stabilità che si vorrebbero attuare in ogni singolo territorio di appartenenza. Dopo la valutazione del Consiglio europeo, gli Stati membri dovranno recepire indicazioni e raccomandazioni specifiche, affinché riescano ad assestare nel migliore dei modi le loro politiche nazionali e i bilanci finanziari. Se una società si presenta con squilibri macroeconomici sarà compito della presidenza del Consiglio riportare indicazioni adeguate al fine di ristabilire l’ordine economico della nazione in crisi e, successivamente, dell’Europa intera. L’Italia si presenterà all’esame europeo il 1 luglio di quest’anno ed esso durerà fino a dicembre prossimo. Con l’ascesa al Governo, il premier Renzi sta tentando di recuperare tutto il ‘recuperabile’ nel tentativo di ristabilire le condizioni economiche di una nazione che nell’estate del 2011 si stava avvicinando a un tracollo economico e finanziario di proporzioni epiche. Il perché di questo crollo è risieduto in una cattiva visione da parte della classe politica italiana nei confronti di una struttura internazionale ben salda, alla quale bisogna omologarsi per non essere ‘fatti fuori’. Se, da una parte, l’euro ha fornito all’Italia una via di uscita dai totalitarismi di destra e sinistra che hanno cercato di condizionarla sin dai lontani anni ’20 del secolo scorso, dall’altra ha reso le cose più difficili del previsto. Tale condizione di crisi non ha colpito solo l’Italia e altri Paesi europei come Grecia, Spagna e Portogallo: anche negli Stati Uniti le cose non sono così lontane dalla nostra realtà. In seguito ai vari cali dei prestiti obbligazionari e, quindi, dei crediti bancari, la borsa di Wall Street si trova infatti costretta a fare i conti con i forti ribassi europei. I primi tre mesi del 2014 hanno evidenziato una flessione pari al 1,2% e questo non succedeva dalla grande crisi avvenuta nel 2008. Ecco, perciò, il grande problema mondiale a cui ogni giorno dobbiamo far fronte: la Borsa Valori. Essa, per definizione, è un mercato azionario regolamentato che risponde a strumenti finanziari (valori immobiliari e valute estere) in circolazione. I primi organismi bancari nacquero nel XV secolo e, insieme alle fiere, divennero luoghi di scambio e di commercio. Oggi, il compito della borsa è quello di ricevere ordini di compravendita da taluni operatori e, successivamente, attenendosi alle leggi della domanda e dell’offerta, venderli. Queste azioni sono trattate dai cosiddetti ‘traders’, che gestiscono i trading - letteralmente: scambi - al fine di ottenere denaro in contante. In Italia, il Testo Unico sulla Finanza ha il compito di reprimere la manipolazione del mercato, così da assicurare una sicura piazza economica. Ma allora perché la nostra economia nazionale e internazionale spesso si trovano sull’orlo di un precipizio e l’uscita dalla crisi sembra essere diventata una vera e propria utopia? Lo abbiamo chiesto al senatore Paolo Guerrieri, professore ordinario di Economia presso l’Università ‘la Sapienza’ di Roma.

Senatore Guerrieri, la situazione italiana per quanto riguarda la politica economica sembra essere costantemente in bilico, o sul filo del rasoio: puó spiegare ai nostri lettori come si gestisce un Paese dal punto di vista finanziario? E in cosa gli altri Stati si differenziano dal nostro?
“La peculiarità dell’economia italiana rispetto ad altri grandi Paesi europei come la Germania, la Francia e il Regno Unito è l’enorme ‘stock’ di debito pubblico che grava sulle nostre spalle da oltre venti anni e che, in termini di Pil, ha in questi ultimi tempi superato abbondantemente il 130 per cento: il livello più alto in Europa dopo quello della Grecia. A causa di questo ‘stock’ di debiti accumulato, ogni anno emettiamo e dobbiamo trovare sottoscrittori per un ammontare di titoli pubblici pari a oltre 400 miliardi di euro e destiniamo circa 70-80 miliardi di euro per il pagamento degli interessi. E’ evidente che siamo e rimarremo un Paese ‘sorvegliato speciale’, fino a quando non saremo riusciti a riportare su valori fisiologici questo immenso debito. D’altra parte, è ciò che ci siamo impegnati a fare nei prossimi anni, dal momento che abbiamo preso un formale impegno in Europa, attraverso il ‘Fiscal compact’, a diminuire la montagna di debiti accumulati dal 120% al 60% del Pil. E sarà importante farlo anche nel nostro interesse, dal momento che senza conti in ordine continueremo a essere al centro del mirino dei mercati finanziari internazionali”.

Quanto pesa l'influenza delle borse sull'economia mondiale e quali sono le caratteristiche che le rendono così ‘complicate’ e differenti?
“In generale si può dire che l'andamento della borsa è solo un indicatore generico e relativamente impreciso dello stato di salute di un’economia.  A questo riguardo, Keynes coniò due note metafore per descrivere il funzionamento della borsa e il suo distacco dall’economia reale. La prima è quella del gioco delle sedie musicali, in cui alla fine qualcuno, inevitabilmente, rimarrà in piedi. La seconda metafora è quella del ‘concorso di bellezza’, in cui occorre indovinare non la ragazza più bella, ma quale sarà la ragazza considerata più bella da tutti gli altri partecipanti. Allo stesso modo, l’investitore in borsa, per realizzare guadagni immediati, non comprerà i titoli dell’impresa che considera migliore, ma cercherà di indovinare quale titolo la maggioranza degli investitori cercherà di comprare, il cui prezzo, quindi, si alzerà. Esistono comunque differenze profonde tra le borse e le loro funzioni, nei vari Paesi. Se prendiamo per esempio la borsa italiana dobbiamo osservare che essa non rispecchia affatto l’economia reale, ovvero la realtà produttiva del nostro Paese, in quanto è dominata dai titoli di banche e assicurazioni. Non ci può meravigliare, dunque, che a partire dall’anno scorso la borsa italiana abbia registrato una grande fase di espansione, mentre l’economia reale viveva una fase di profonda recessione prima, di modestissima ripresa più di recente…”.

Le transazioni finanziarie che avvengono nelle borse non dovrebbero essere tassate, soprattutto le grandi manovre o 'bolle' speculative?
“La mia risposta è affermativa e, in questo caso, si può citare sempre Keynes, che propose una imposizione fiscale orientata a contenere e penalizzare le transazioni finanziarie di titoli a breve termine, che considerava estremamente negative per le sorti dell’economia reale. Oggi, questa tassa sulle transazioni finanziarie viene chiamata erroneamente ‘Tobin tax’ e il suo unico limite è che, per essere efficace, dev’essere applicata su grande scala, con un accordo internazionale, e non può essere adottata solo da singoli Paesi, come ha tentato di fare di recente, con scarso successo, l’Italia”.

Un imprenditore può investire sia nell'economia reale, sia comprando titoli: non le pare che, in questi ultimi decenni, sia stata scelta soprattutto la seconda opzione, mentre il Paese aveva invece bisogno di scommesse coraggiose soprattutto nel primo settore? Come si potrebbe invertire, o quanto meno bilanciare, questa tendenza?
“Si potrebbe invertire questa tendenza attraverso le riforme e le regole da introdurre nel mercato finanziario, per impedire gli eccessi di profitti e di rischio e, di conseguenza, l’instabilità. Mario Draghi sintetizzò tempo fa un possibile piano di questo genere in quattro punti: 1) più regole, evitando la sudditanza psicologica dei regolatori nei confronti dei regolati; 2) più capitale, contro l’uso rischiosamente eccessivo della leva finanziaria, per evitare una forte concentrazione dei crediti e una fiducia non giustificata in una liquidità di mercato senza limiti; 3) meno debito, per tornare a valutare e a gestire correttamente i rischi; 4) più trasparenza, limitando i prodotti finanziari altamente strutturati e sofisticati, che hanno reso impossibile calcolare il rischio e l’incertezza a essi relativi. Il problema è che, a sei anni dalla crisi, siamo ancora lontani da queste riforme e resta ancora molto da fare. Il rischio è che, in assenza di questi interventi, ci si possa ritrovare, a breve, nelle stesse condizioni che hanno portato alla drammatica crisi finanziaria del 2007-2008. Come ha rilevato Christine Lagarde del Fmi: “Ulteriori sforzi sono necessari per perfezionare e attuare le riforme annunciate…. Ma a preoccupare è che l'energia collettiva nel fare queste riforme sta svanendo”. Vale la pena qui ricordare che proprio la crisi del 1929 indusse gli Stati Uniti a stabilire la separazione tra banche commerciali e banche di investimento e a introdurre limiti alla speculazione con il noto ‘Glass-Steagall Act’, il quale contribuì a garantire quello che è stato il periodo di più lunga stabilità del capitalismo”.

Esiste ancora la polemica di scuola tra ‘monetaristi’ e 'keynesiani'? Ed è vero quel che si dice in merito a un ritorno al primo tipo di economia, quella neoclassica, a scapito della seconda?
“Effettivamente, la polemica tra ‘monetaristi’ e ‘keynesiani’ non è più di grande attualità, oltre che poco utile. Oggi, servono sia Keyenes, sia Schumpeter. E mi spiego: affinché i Paesi avanzati tornino a insediarsi su un sentiero di crescita stabile e sostenuta, in grado di generare nuovi posti di lavoro, sono necessari sia interventi in grado di agire sulla domanda - come quelli determinati dalle politiche monetarie e fiscali - sia misure volte a fronteggiare i problemi di struttura dell’offerta produttiva, che sono stati lasciati in eredità dalle debolezze del modello di sviluppo prevalso nei due decenni antecedenti la crisi e aggravati dalla crisi stessa. È evidente che, per rilanciare stabilmente la dinamica di crescita, non sarà sufficiente produrre ciò che risultava profittevole prima della crisi. I cambiamenti tecnologici in corso, la problematica ambientale e l’ascesa dei Paesi emergenti spingono a riallocare le risorse verso nuovi prodotti e settori che siano in grado di soddisfare bisogni privati e pubblici (infrastrutture materiali e immateriali, energie rinnovabili, sanità, istruzione). In altre parole, per tutte le economie avanzate - Stati Uniti ed Europa innanzitutto - lasciarsi alle spalle le conseguenze della grande crisi e rispondere alle sfide dell’economia multipolare significherà promuovere investimenti pubblici e privati in aree in grado di agire come ‘nuovi motori della crescita’. In altri termini, la grande sfida è la simultanea realizzazione di un mix di politiche di domanda di stampo ‘keynesiano’ e di politiche in grado di agire dal lato dell’offerta ispirate alla visione ‘schumpeteriana’ dello sviluppo come forza di “distruzione creatrice”. Solo mettendo in campo queste rinnovate strategie sarà possibile rilanciare la crescita globale e, attraverso essa, rispettare i vincoli, sempre più stringenti, derivanti dal necessario consolidamento dei debiti pubblici. Per ora, purtroppo, siamo ben lontani da tutto ciò: negli Stati Uniti si continuano a riproporre tradizionali politiche di stimolo alla domanda di consumi, mentre in Europa si praticano politiche generalizzate di austerità o di restrizione della spesa. È evidente che le prime sono destinate a scontrarsi con l’eccesso di debiti, mentre le seconde non possono che aggravare le tendenze recessive. Il risultato è la ‘trappola’ a livello globale in cui siamo oggi imprigionati: da un lato, il mercato lasciato a se stesso non è in grado di generare un’adeguata domanda; dall’altro, la necessaria ristrutturazione dell’offerta non riesce a dispiegarsi, in assenza di una sufficiente domanda che la sorregga e la renda conveniente. Da qui discendono le previsioni di bassa crescita a livello mondiale oggi dominanti”.

In ogni caso, l'impressione generale rimane quella di un ‘sistema-Paese’ che soffre di una cronica scarsità di capitali: ha ragione chi dice che i soldi ci sono ma che vengono utilizzati soprattutto per speculare in borsa, anziché investire in nuove iniziative che rianimerebbero l'economia reale, generando nuova occupazione?
“Purtroppo, il problema della cronica scarsità di capitali in Italia non nasce oggi, ma risale a molto tempo fa. E’ una sorta di tara genetica, che ha portato a definire il nostro ‘sistema-Paese’ un “capitalismo senza capitali”: un sistema bloccato, dove si controllano con poche risorse proprie e col metodo delle partecipazioni incrociate (scatole cinesi) grandi gruppi di potere economico. L’importante non sono le strategie industriali e/o finanziarie, ma il mantenimento del controllo delle società, cercando di limitare quanto più possibile di investire e di ricorrere a esborsi finanziari. Unitamente alla incapacità della classe politica, questa storica debolezza della nostra borghesia imprenditoriale è in grado di offrire una spiegazione sufficiente della perdurante crisi del nostro sistema economico e del nostro sistema produttivo”.    

Infine, a noi sembra di notare una scarsa capacità di allargamento dei mercati a nuovi soggetti economici più 'sani', costituiti da giovani o dall'imprenditoria femminile, che potrebbero portare una ventata di ‘aria nuova’ rispetto alle solite aziende: c'è un problema di ghettizzazione o di ‘barriere d'entrata’, come diceva Bain, nei confronti delle piccole e medie imprese da parte di quelle più grandi, in particolar modo in Italia? Sono le grandi aziende che impediscono l'espansione a tutte le altre, al fine di mantenere una condizione di ristretto oligopolio, magari utilizzando anche la corruzione?
“Non credo, dal momento che le grandi aziende, in Italia, sono praticamente scomparse come portato della nostra crisi. Il nostro è un modello aperto e assai dinamico, che è entrato in crisi proprio con la fase della globalizzazione. A partire dalla seconda metà degli anni ‘90 non siamo riusciti a integrarci nel nuovo mondo multipolare così efficacemente come avevamo fatto nel dopoguerra. Il dato che riassume tutto questo è il brusco rallentamento della produttività  e della crescita, rispetto al passato e rispetto all’Europa. C’è chi lo attribuisce solo a fattori di contesto, infrastrutture che non sono state costruite, energia troppo cara, pubblica amministrazione inefficiente, regole deboli e non rispettate. Tutto vero, ma c’è anche un problema delle imprese e dentro il sistema produttivo che riguarda chi produce, cosa produciamo e come lo produciamo. Oggi, sono tre le ‘aree-chiave’ per la crescita di una economia come la nostra: il sistema fiscale, le infrastrutture, e le liberalizzazioni. Sul fisco abbiamo sentito parlare per anni di riduzione delle tasse, abolizione dell’Irap e via dicendo, ma non si è vista nessuna riforma. Al contrario, la pressione fiscale è salita e tale aumento ha finito per opprimere soprattutto lavoratori e imprese, i veri motori della crescita. Anche in tema di infrastrutture sono stati annunciati, anno dopo anno, decine e decine di miliardi di nuovi investimenti e grandi opere. E invece ci ritroviamo con una rete infrastrutturale (materiale e immateriale) drammaticamente al di sotto degli standard europei e di quelli di un Paese avanzato Ancor più clamorosi sono i ritardi e ciò che non è stato fatto in tema di liberalizzazioni in questi anni. Il grido di allarme dell’Antitrust, Poste, ferrovie, gestioni delle autostrade e aeroporti restano i settori meno aperti al mercato. Così come è insoddisfacente la concorrenza nel settore delle banche e assicurazioni. Nelle professioni e trasporti stiamo tornando alle tariffe minime e alle barriere all’ingresso. Le liberalizzazioni sono dunque rimaste al ‘palo’, mentre il loro rilancio è cruciale per tornare a crescere, anche per stimolare l’innovazione. E si potrebbero fare altri esempi, altrettanto importanti. Come meravigliarsi, dunque, che l’Italia, in questa condizioni, sia un Paese che non cresce e si impoverisce? Servono politiche economiche per liberare una economia ingessata. Ricette che conosciamo da anni e su cui in molti concordano, ma che non riusciamo ad applicare. Speriamo, comunque, di riuscire a farlo, perché ormai non esistono altre strade”.




(intervista tratta dalla rivista mensile 'Periodico italiano magazine'  - maggio 2014)
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