“Noi siamo lietissimi di avere tra le nostre file uomini che, nel passato, hanno illustrato l’Italia. Ma ciò non vuol dire che noi vogliamo o possiamo ereditare in blocco tutto il fascismo, anche perché esso, nella sua ventennale evoluzione, è stato tutto il Paese e chi volesse oggi essere ligio a tutti gli aspetti del passato dovrebbe essere, ad un tempo, repubblicano e monarchico, conservatore e rivoluzionario, pragmatista e dogmatico, individualista e collettivista…”.

(Giorgio Almirante, dicembre 1947)

E’ fuor di discussione il fatto che, in Italia, la parola destra, in quanto concetto culturale, rappresenti un termine difficile, sia in sede di elaborazione generale, sia in quella più specifica di un definitivo superamento di quel processo di deideologizzazione che investe pienamente questa parte politica.
Sventuratamente, il problema di una sana cultura politica conservatrice, che affronti con concretezza fenomeni e problemi politico-sociali al fine di regolamentarli, rimane ancora oggi in alto mare.
La rispettabilità storica di una figura come quella di Giorgio Almirante deriva, infatti, dalla difficilissima situazione contingente che questi si ritrovò ad ereditare nell’immediato dopoguerra, nel tentativo - intellettualmente rilevante - di rimettere in moto, dandole una qualche funzionalità, una macchina partitica di matrice social-nazionale.
Riuscire a svincolarsi, in quella fase storica, dall’esperienza autoritaria mussoliniana e dal suo mortale abbraccio con il delirio hitleriano, nel tentativo di affrontare la nuova fase che si andava aprendo - quella della 'democrazia di massa' -, rappresentava un vero e proprio strappo ideologico, un atto politicamente di rottura per molti militanti o semplici simpatizzanti dell’allora nascituro Movimento Sociale Italiano.
Ma è anche per tali motivazioni che risulta scientificamente corretto cercare di porre, oggi, in un’ottica storiografica più opportuna l’esperienza della dittatura nel nostro Paese: cosa fu effettivamente il fascismo e che cosa rappresentò?

Il nodo storico-culturale è tutt’altro che facilmente districabile – benché in tale direzione molti sforzi siano stati tentati da autorevoli studiosi del nostro panorama storiografico -, per il semplice motivo che persino le migliori intelligenze di quel regime, facenti capo a Giovanni Gentile e a tutto il nucleo intellettuale del cosiddetto ‘fascismo di sinistra’, concesse giudizi molto poco lusinghieri nei confronti del sistema di potere instaurato dal sanguigno socialista rivoluzionario romagnolo.
“Il fascismo è pura forma, un vuoto atteggiamento, un’etichetta salutata la quale può vedere accolti, sotto di essa, contenuti di qualsiasi matrice culturale, persino di natura rivoluzionaria”.
Tale giudizio, delineato proprio dal teorico dell’atto puro che più di ogni altro aveva tentato di offrire un minimo di spina dorsale culturale al sistema autoritario italiano, rappresentava e continua a rappresentare molto più che una presa di distanza politica: fu un vero atto di rassegnazione, di sconforto per la fascistizzazione dello Stato e del mondo universitario italiano.
Per quanto teorico dello Stato-forte, infatti, Gentile non fu un intellettuale fascista tout court, non tollerò l’ostracismo inflitto agli accademici ebrei e non digerì mai completamente il compromissorio Concordato del 1929 firmato dal Duce e da Papa Pio XI.
Egli era un autentico studioso liberale che riteneva il fascismo solo un tentativo, funzionalmente contingente, di modernizzazione riorganizzativa dello Stato.
Fu proprio Giovanni Gentile, tra l'altro, a presiedere l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana ‘Treccani’, riportando per la prima volta ad unità il ramificatissimo percorso culturale di un popolo che non aveva minimamente conosciuto i processi storici di formazione degli Stati moderni a causa di controversi snodi quali la questione della Controriforma o quella della quasi assoluta inconsistenza di una concezione collettiva di italianità.
Il fascismo, secondo il filosofo di Castelvetrano, poteva dunque rappresentare quella forza politica in grado di permettere all’Italia il necessario riscatto dal proprio provincialismo culturale.
Riguardo a ciò, il dissidio avuto con Benedetto Croce intorno alla metà degli anni ’20, che pose fine ad una fruttuosa collaborazione scientifica e intellettuale, era avvenuto sulla base di questioni inerenti, più che altro, le distinte concezioni dottrinali dei due pensatori: per usare un’espressione ancora molto cara agli intellettuali di sinistra, si confrontarono sui massimi sistemi, non certo intorno all’interpretazione da fornire per il fascismo.
Gentile e Croce. Gentile e il fascismo. Gentile e il Vaticano. Gentile e il Concordato. Gentile e la scuola italiana. Gentile e le leggi razziali. Gentile e l’attualismo. Gentile e Mussolini. Gentile e gli intellettuali. Gentile e Fanciullacci: chiunque provi a por mano con serietà a questo tipo di questioni storiografiche non può far altro che immergersi in un gorgo gigantesco di pensieri, scritti, considerazioni irte di genialità, intuizioni, suggestioni fichtiane, rivalutazioni hegeliane, spregiudicate speculazioni meta-politiche tese a cercare di tenere assieme tutto e tutti, Mussolini e i Savoia, la Diarchia e la Rivoluzione Nazionale, 'Lorenzaccio' e Giordano Bruno, in un contorto, ma finalmente univoco, percorso di vera e propria Storia della cultura italiana in grado di superare l’antico 'adagio guicciardiniano' di un popolo privo di sogni e utopie, esclusivamente ripiegato sul proprio “particulare”, sempre pronto ad asservirsi a qualsiasi invasore straniero, anche e soprattutto nelle arti, pur di trovare un personale riscontro economico e di carriera.
Tutto ciò, al di là di facili revisionismi, talvolta solo parzialmente documentati, dovrebbe venir profondamente analizzato dagli ambienti culturali della destra italiana cosiddetta ‘di governo’, anche alla luce del fatto che fu proprio Giovanni Gentile il più autentico capostipite intellettuale di una numerosa schiera di studiosi che furono successivamente fondamentali per il consolidamento della nostra democrazia.
Intorno a tali riflessioni, la destra nazionale potrebbe infatti riuscire, nei termini di una propria rielaborazione evolutiva, a stimolare con maggior vigore un dibattito interno che la possa riallacciare ad una nuova dottrina, ad un tempo democratica e nazionale, liberale e sociale, che riesca a mandare definitivamente 'in soffitta' i vecchi strumenti interpretativi tipici dell’ideologismo reazionario, abitudinariamente arroccati su erronee idealità populiste e di intransigenza demagogica.
Sarebbe altresì politicamente errato ritenere difficile una simile autoanalisi del pensiero neoconservatore italiano nel suo complesso. E ciò per due obiettivi ben precisi, che potrebbero vedersi realizzati, in tempi non eccessivamente lunghi, proprio da un innovativo fronte politico liberal-nazionale: a) il rilancio di una moderna concezione ideale di Patria, allineabile ad una risorta tradizione di buon governo e di laicità dello Stato; b) il favorimento di una rilegittimazione reciproca tra le forze parlamentari italiane attraverso ulteriori sviluppi della necessità storica di quella ‘pacificazione nazionale’ che possa 'bruciare definitivamente i ponti’ con obsoleti antagonismi ideologici e con vetuste dicotomie totalitarie (fascismo/antifascismo, amico/nemico, bene/male, razionale/irrazionale).

Discorso ben più severo merita, invece, il movimento politico denominato Forza Italia. Esso, erroneamente a quanto si crede, soprattutto in seguito all’iscrizione di tale compagine tra le forze del Partito Popolare Europeo, non rappresenta il discendente diretto della vecchia Democrazia Cristiana - pur avendola sostituita dal punto di vista della ‘geografia collocativa’ -, bensì del peggior ‘apotismo qualunquista’ italiano.
Dispiace dare un simile giudizio della forza creata da Silvio Berlusconi nel 1993, poiché questi ha diverse volte dimostrato generosa operosità e credibile sensibilità personale, per quanto numerosi osservatori possano ‘storcere il naso’ rispetto a tali considerazioni.
Il problema di Forza Italia non risiede semplicemente nella persona del Presidente Berlusconi, ottimo imprenditore dal piglio lombardo prestato (…e prestatosi) all’universo della politica, ma nelle nebulose linee ideologiche interne alla sua stessa creatura, generate dalla frettolosa necessità di contenuti politici purché ve ne fossero, i quali, a loro volta, hanno finito col determinare insane e spregiudicate tendenze ad inglobare correnti, personaggi politici o intere componenti partitiche di ciò che era ed è rimasto del Pentapartito di craxiana memoria.
Ciò, al fine di rivitalizzare forzosamente la 'produzione di discorso’ verso l’esterno del partito e per stimolare il fideismo di esponenti, militanti, simpatizzanti o semplici gruppi erranti alla ricerca di un Maestro purchessia.
Una simile impostazione finisce col caratterizzarsi, in termini di forma-partito, come verticistico-padronale, oltreché risultare sostanzialmente speculare alla vecchia strutturazione centralista e burocratica del Partito Comunista Italiano.
Il Presidente Berlusconi, inoltre, strategicamente è spesso sulla difensiva - al di là delle apparenze mediatiche - e paurosamente a rischio di spaventosi errori di valutazione.
Nonostante i propri sforzi personali nel volersi richiamare ad Alcide De Gasperi, egli non riesce a comprendere appieno che Forza Italia non possiede, per motivazioni congenite, uno solo dei cardini storici, politici e organizzativi della Democrazia Cristiana.
Proviamo a ricordarne sommariamente qualcuno, anche per rendere eventualmente propositiva la presente analisi: la Democrazia Cristiana aveva, come problema principale, quello di riunire in essa tutto l’elettorato di sensibilità cattolica, evitando quel pluralismo politico che avrebbe potuto indebolire le proprie possibilità di dialogo con le forze di ispirazione marxista, laica e socialista. La tal cosa, tuttavia, non si traduceva in un partito strettamente confessionalista nei propri contenuti, poiché la Dc era consapevole di aver ereditato un Paese che militarmente era stato sconfitto proprio dalle democrazie a chiara tradizione liberaldemocratica.
Nonostante il vorticoso gioco di correnti interne, la Dc non puntò mai ad inglobare realtà ben distinte da essa, in quanto in possesso di una mentalità politica qualitativamente e diplomaticamente esperta nel gestire i rapporti con i propri alleati, anche se di tradizione culturale minoritaria, all’interno del panorama sociale del nostro Paese.
La Dc, insomma, non faceva ‘campagne acquisti’, non toglieva ‘campioni’ alle squadre avversarie per poi tenerli 'in panchina’, bensì era maestra di un gioco di contrapposizioni e ricompattamenti interni in grado di tenere sempre assieme persino qualunquismi accidiosi con mentalità cattolico-liberali o di chiara impronta cristiano-sociale.
Alcide De Gasperi sapeva bene che, in situazioni politicamente fluide, non possedere connotazioni vistose o legami troppo vincolanti, si trattasse anche della Santa Sede, facilitava la penetrazione del partito in settori difficili della società italiana. Inoltre, organizzativamente parlando la Dc era in grado di delegare compiti ben precisi alle proprie componenti interne: l’ala maritainiana rappresentava un agile reparto di guastatori che apriva la strada al grosso delle truppe, mentre i notabili del partito intessevano rapporti con gran parte del ceto medio e con il mondo delle professioni i quali, a loro volta, dotavano la ‘balena bianca’ di un vero e proprio sistema di ‘compatibilità interne’.
La Dc di De Gasperi e, successivamente, di Fanfani era certamente un partito ‘clerico-moderato’, tuttavia attento ad operazioni di ricucitura con le minoranze interne, oltreché con tutti quei corpi sociali intermedi in grado di impedire facili incasellamenti di categorizzazione o specifiche 'etichettature' politoligiche (confessionalismo, monolitismo classista, dirigismo borghese): in una parola, la Dc rappresentava una forza politica autenticamente interclassista.
Il riformismo democristiano, inoltre, non era affatto fioco, ma perseguiva una reale Rivoluzione democratica da realizzare con tutte le forze politiche presenti in parlamento, alleate o meno, al governo o all’opposizione, al fine di esprimere un senso di solidarietà popolare in grado di materializzare contenuti socialmente integrali.
Tali caratteristiche, Forza Italia, purtroppo non riesce a delinearle con precisione poiché non possiede uomini adeguati a tali fini - a parte qualche autorevole eccezione - e perché non sempre gli entourages di contorno sono professionalmente all’altezza dei compiti delegabili, in linea di principio, a segreterie politiche di Assessorati regionali o locali.
Vieppiù, Silvio Berlusconi sconta – e ciò è vero per quanto non giustificatorio – un momento storico in cui la politica sembra essere definitivamente 'morta e sepolta', non in grado di influenzare o regolamentare coerentemente il cammino sociale di un Paese.
Il partito del Presidente del Consiglio, non ce ne voglia, al termine della presente analisi appare troppo figlio di quel liberismo qualunquista, provinciale e anche un po’ sgrammaticato delle novelle di Giovannino Guareschi, più che della migliore tradizione De Gasperiana o di quella Einaudiana.

Concludiamo ora l’analisi delle principali forze del centrodestra italiano con la terza grande componente della coalizione di governo definita ‘Casa delle Libertà’: la Lega Nord.
La compagine creata da Umberto Bossi e Gianfranco Miglio non è strettamente definibile tramite i classici canoni ideologici o culturali della scienza politica dottrinaria.
La sua propensione valoriale verso il lavoro e le sofferte conquiste dei singoli cittadini la pongono, per un verso, su un piano razionalistico vagamente progressista, anche se direzionato in senso liberista.
Viceversa, la propria connotazione federalistico-regionale, o di regionalismo forte, così come il proprio bacino elettorale di riferimento, geograficamente ben delimitato, evidenziano una contraddizione complessiva che l’ha spesso trascinata su versanti ideologici estremamente conservatori.
Naturalmente, ciò ha causato e causa una molteplicità di equivoci interpretativi, in termini di comprensibile progettazione programmatica, tra l'altro non sempre facilmente gestibili in sede di prospettiva strategica generale, nonostante l’abilità del suo principale leader nel saper celare, nei momenti opportuni, precise coloriture folcloristiche come strumentali ad esigenze di ‘cavalcamento’ di un consenso populistico-protestatario.
L’avvento di una simile forza nel panorama politico nazionale rappresenta, forse, il principale capo d’accusa storico imputabile alla Democrazia Cristiana la quale, per interi decenni, ha socialmente anestetizzato precise caratteristiche socio-economiche del Nord italiano per mezzo di un cattolicesimo ritualista, paternalistico e provvidenzialista non in grado di reggere la prova di una società in rapida modernizzazione e fortemente esposta a quei processi di secolarizzazione tendenti a mutuare incessantemente il tradizionale patrimonio di valori legati al mondo contadino 'padano' di ottocentesca memoria.
Il tema di una riforma federale dello Stato, posta in un quadro di più ampie riforme costituzionali ed istituzionali che investano anche la forma complessiva di governo del Paese, rimane, ordunque, questione politicamente vincente per la compagine guidata da Umberto Bossi e Roberto Maroni, in quanto mantiene la vivace 'armata Brancaleone' messa a punto alla fine degli anni '80 strategicamente ‘attuale’, non ancorata a bizantinismi e meno esposta ad interdizioni tattiche.
Sbaglia clamorosamente chi già considera il fenomeno leghista in una fase di declino politico, anche se tale errore può venir interpretato psicologicamente comprensibile, in quanto forma soggettiva di augurio interiore...
La Lega Nord, di per sè non rappresenta una forza necessariamente eversiva.
Tuttavia, non risulta affatto semplice per nessun partito ad essa alleato riuscire ad incanalarla in un percorso riformistico complessivo che possa esautorare, in tempi medi, le reali esigenze di cambiamento del Paese gestendo, nel contempo, con equilibrio, un minimo di funzione non ordinaria di governo.

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