Clelia MoscarielloSi è tenuta di recente, presso la biblioteca ‘Benedetto Croce’ di Napoli, la mostra ‘Rebirth’ di Désirée Picone: 33 anni, napoletana, Communication expert e fotografa, laureata in Scienze della comunicazione presso l’Università degli Studi di Salerno. La rassegna è stata curata  dall’architetto  Daniela Wollmann. “Non tutte le barriere dividono” è uno dei messaggi principali: tante mascherine colorate e decorate come faccine simpatiche hanno inaugurato l’esposizione. Coloro che hanno partecipato all’evento le hanno infatti ricevute in regalo. Il motivo? Secondo l’autrice del progetto fotografico era quello di “rompere il muro del silenzio”, soprattutto quello della malattia

‘Rebirth: non tutte le barriere dividono’ è stata una mostra assai originale, che ha rivelato un messaggio importante: non dobbiamo avere pudore delle ‘cicatrici’ che portiamo, ma indossarle con consapevolezza. Esse ci arricchiscono, poiché sono il frutto delle nostre esperienze. Il progetto, come ci ha spiegato Désirée Picone, si ispira filosoficamente alla tecnica giapponese ‘Kintsugi’: in Giappone, quando un vaso si rompe, le ‘cicatrici’ del vaso stesso, una volta riparate, devono essere visibili e vengono perciò impreziosite con oro fuso. La nostra società, al contrario, tende a nascondere le ferite, a rimuovere o a psichiatrizzare il dolore. Questa mostra ha perciò inteso trasmettere il messaggio opposto, attraverso un percorso nel dolore e in quello della ‘guarigione’  di 5 donne. La prima, sportiva dalla nascita, in seguito a un problema alla tiroide e a una cura sbagliata ha avuto problemi di salute invalidanti, che non le hanno permesso di coltivare la sua passione. Oggi, tuttavia, è un'atleta dei ‘tessuti aerei’ e pratica diversi sport, oltre a lottare per la valorizzazione del suo territorio; la seconda, in seguito a un incidente è rimasta disabile dalla vita in giù, ma non ha mai smesso di praticare attività sportive e, oggi, partecipa a gare nazionali di sci, tennis e vela in carrozzella; la terza, affetta dal morbo di Crohn, attualmente è una ‘dottoressa Babà’ per ‘Clown Therapy’; la quarta, alla quale fu diagnosticata una neutropenia ciclica, è una Communication expert  e  fotografa; infine, una ragazza che ha sofferto di difficoltà a relazionarsi è divenuta speaker radiofonica e attrice. Queste donne portano in loro stesse un comune denominatore: non si sono arrese e hanno scelto di rinascere. E sono diventate modelle felici di questa mostra sulla rinascita interiore. La Picone ha tenuto a sottolineare di non aver voluto cadere nella tentazione di paragonare una ‘cicatrice’ alle altre: tutte meritavano lo stesso rispetto. Quest’autrice è dunque partita dalla sua di storia per poi raccontare quella delle altre 4 donne. Il percorso della rassegna potrebbe essere definito ‘catartico’: dopo aver attraversato una sala nella quale sono state mostrate le foto di queste 5 donne in bianco e nero per evidenziare le difficoltà attraversate - e nelle quali emergeva tutta la loro tristezza - le stesse erano successivamente riprese a colori nel pieno della loro energia vitale. Accanto a ogni foto compariva uno scritto, la storia di ognuna di queste donne, per mettere in evidenza la loro ‘rinascita’. In seguito, un lungo corridoio nel quale erano esposte una serie di foto con immagini dedicate alla bellezza della vita e alla sua quotidianità rassicurante, come una tazza bollente di caffè o l’abbraccio di una madre. Alla fine, in molti si sono commossi. E non solo le donne. Abbiamo dunque intervistato Désirée Picone per farci raccontare come è nato questo suo bel progetto e un po’ della sua storia.

Désirée Picone, come è nato il progetto ‘Rebirth’?
“Quando è nato questo progetto avevo scoperto da poco di avere una malattia rara, non di quelle bruttissime, ma sicuramente da imparare a gestire. Per quasi un anno, il Policlinico era diventato la mia seconda casa. Nell’attesa che si scoprisse cosa avessi, ho conosciuto tante persone con tante storie diverse, difficili, pesanti, ma intense. E ho deciso di raccontarle per testimoniare la loro capacità di sorridere, di trasformare il dolore in qualcosa di positivo. Una malattia, temporanea o perenne, è qualcosa che all’inizio ti paralizza dalla paura. Poi, con il tempo, familiarizzi con lei e la trasformi, anche se è lei che cerca di trasformarti”.

Perché hai voluto articolare la mostra in un certo modo?
“Rebirth si è basata su 5 storie di donne che hanno attraversato momenti difficili di diversa natura - psicologici, fisici, emotivi - e che hanno avuto la forza di trasformare quella sofferenza in un’opportunità. La possibilità di creare un’esistenza diversa, solare, vitale e spesso utile anche per gli altri. Il tutto è raccontato fotograficamente con un “prima” e un “dopo”, dove il prima è, per scelta espressiva, in bianco e nero. Accanto a ogni storia fotografica vi è la biografia scritta personalmente da ogni ‘modella’. Volevo che le loro emozioni, pensieri, arrivassero alla gente senza filtro”.

Ci ha colpito il concetto delle “cicatrici impreziosite dall’oro” come nella cultura giapponese con i vasi, il kintsugi: vuoi approfondire questa metafora?
“Bene, come ben saprai nella nostra cultura occidentale, qualcosa che si rompe è da buttare, sostituire, le cicatrici della vita sono da nascondere, da cancellare. Il dolore deve essere nascosto, dimenticato. Per la cultura giapponese no. Tutt’altro. La tecnica del Kintsugi spiega bene il concetto: quando un vaso si rompe esso non va gettato ma ogni suo pezzo rotto è riunito agli  altri con oro fuso. Così non solo renderà visibile il segno della rottura ma lo renderà prezioso, unico, irripetibile. Rebirth è una celebrazione della cicatrice come peculiarità di bellezza. Il segno non va cancellato ma va amato e integrato come punto di forza personale”.

Come hai rappresentato il dolore e la rinascita di queste 5 donne?
“Il dolore è personale e, come esso, anche la sua rappresentazione. Alcuni volti già parlavano da soli, ma in altri casi ho sottolineato con una fascia di seta situato sulla bocca o sugli occhi il ‘blocco’ corrispondente. Sicuramente, la scelta del bianco e nero ha accentuato la drammaticità dei ritratti. Mentre per la rinascita ho realizzato gli scatti negli ambienti dove  queste donne si sentivano più felici, se stesse, lì dove erano rinate, come per esempio Imma quando fa il clown per i bambini ospedalizzati, o Sarah quando gioca a tennis in carrozzella sentendosi libera nel vento. Qui il colore la fa da padrone, accentua l’energia di queste ragazze”.

La nostra società tende a rimuovere il dolore e a nascondere le 'cicatrici'?
“Decisamente, la chirurgia estetica è uno di questi aspetti. Quante donne cancellano la loro storia sul viso in cambio di un eterno presente? Sotto quella pelle l’anima non si legge più! Tutti temono il dolore, la nostra società fa di tutto per farcelo dimenticare anestetizzandoci , dimenticando che è proprio attraverso il dolore che cresciamo, prendiamo consapevolezza della nostra forza e miglioriamo”.

Il luogo dove hai esposto lo hai scelto tu? Hai avuto difficoltà a trovarlo?
“E’ stata Daniela Wollmann, la mia curatrice, a propormi questa location ed ho accettato subito per il potenziale che la biblioteca offriva. Era un modo per parlare quotidianamente, attraverso le foto, ai ragazzi. Il messaggio del progetto è principalmente destinato a loro. Vorrei che capissero che da ogni difficoltà si esce, che certi svantaggi iniziali che la vita ti riserva possono essere invece onde da cavalcare se si ha la spinta più importante: l’amore per la vita”!

Perché hai deciso di trattare le storie di queste donne?
“Mi hanno colpito per la loro capacità di arrivare al cuore: dietro ogni loro parola c’è sudore, c’è un percorso fatto di dubbi, lacrime ma anche tanta, tanta emozione e una forza sconvolgente. Ho scelto loro perché rappresentano le difficoltà che possono accadere a tutti nella vita. E perché all’inizio non erano coraggiose, ma lo sono diventate. Molte persone credono di non avere la forza per uscire da certe problematiche, ma io non credo sia mancanza di forza, bensì di volontà. Se non hai voglia di rimetterti in discussione, di andare in profondità, non ti libererai mai dei tuoi limiti”.

Puoi parlarci, invece, della tua storia?
“La mia mostra è in parte autobiografica, prendo spunto dalla mia malattia rara ma la verità è che di cicatrici ne ho tante, per me non è importante elencarle tutte, credo non abbia senso, neanche paragonarle tra loro per intensità. Credo che ogni cicatrice vada rispettata, piccola o grande che sia e va amata, perché il modo in cui la abbiamo affrontata ci ha reso ciò che siamo, un magnifico vaso kintugi. La mostra ha per me un valore catartico e allo stesso tempo mi dà l’opportunità di regalare qualcosa a più persone. Condividere le rinascite interiori fa bene al cuore”.

Pensi che un progetto del genere possa riguardare, un domani, anche gli uomini?
“Ci sto lavorando, non escludo una mostra futura in tal senso. Il coraggio non è né donna né uomo, semplicemente la donna per indole, riesce più facilmente a trasformare in vita ciò che è dolore, purtroppo ahi noi, è anche portata a sopportare il dolore e questo la porta spesso ad incappare in situazioni autolesionistiche.  L’uomo è diverso, il meccanismo sotteso alla sua rinascita è di altra natura. Ma ne riparleremo con la mostra a loro dedicata”.

Quali sono stati i riscontri dell’inaugurazione? Che reazioni hai notato?
“Mi ha colpito la reazione degli uomini: credevo che avrebbero avuto più difficoltà ad entrare in empatia con storie di donne con difficoltà e, invece, sono quelli che più di tutti hanno saputo compenetrarsi nel loro percorso. Ho visto sguardi commossi, parole di emozione, soprattutto sorrisi, perché questa è una mostra che ti lascia il sorriso, non l’amarezza. Sono rinascite, rivincite. Non si può che sorridere e dirsi: ‘Sì, lo posso fare anche io’…”.

Perché hai regalato mascherine colorate a coloro che hanno visitato la mostra?
“La mascherina è stata per me la prima prova tangibile che la mia malattia esisteva. La mia immunodeficienza mi comporta in alcuni periodi la necessità di “difendermi” dai possibili contagi esterni. All’inizio la vivevo male, mi sentivo come in colpa di chissà cosa, mi sembrava che le persone volessero evitarmi come se io potessi contagiarli e non viceversa! Così ho iniziato a disegnare sulle mascherine dei sorrisi, baffi, linguacce. Il risultato è stato che le persone si incuriosivano, sorridevano e scoprivano una realtà altrimenti distante. Le regalo alla mostra perché voglio che le persone capiscano che queste non sono barriere ma sono modi invece per conoscere le realtà altrui”.


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