Vittorio LussanaLa pubblicità ha sempre suggerito comportamenti ‘standard’, poiché in seguito all’avvento della comunicazione di massa essa non si è più limitata a vantare i pregi intrinseci di una merce, bensì ha cominciato a suggerire nuovi stili di vita, che non si potevano adottare senza l’uso di determinati prodotti, né evitare senza una più o meno esplicita riprovazione sociale. La propaganda commerciale, che in Italia, fino agli anni ’40 del secolo scorso, era essenzialmente rappresentata da ‘affiches’ e inserzioni sui giornali, sin dagli inizi del ‘900 aveva iniziato a reclutare professionisti della grafica - quali Leonetto Cappiello, Marcello Dudovich e Fortunato Depero - i quali, nei loro ‘exploit’ più riusciti, invitavano un pubblico ristretto all’acquisto di beni selezionatissimi, i cui committenti, in genere, erano sartorie, case automobilistiche, concessionarie di spiagge alla moda, fabbriche di liquori o spumanti, società per le corse dei cavalli. Società alle quali questi artisti offrivano tavole rigurgitanti di dame in gran montura, militari in ‘drop’ da parata, signori in ‘frac’ e cappello a cilindro. Tuttavia, accanto a tali ‘manifesti d’autore’ cominciarono ben presto a trovare ospitalità anche messaggi che sollecitavano i consumatori più poveri a combattere gli stenti di una vita aspra e matrigna adoperando lassativi, callifughi, tisane rinfrescanti, polveri contro la sciatica, busti antiscoliotici, unguenti contro i geloni. Spesso straordinariamente longevi, questi ‘tamburini’ - o ‘finestre’ - si rivolgevano a gente mal vestita e mal nutrita, senza rinunciare alla sostenutezza di un ‘ricciolo liberty’ o a una frase ricercata. In qualche caso, il persuasore ricorreva alla declamazione in rima: “Diceva l’oste al vino: ‘Tu mi diventi vecchio. Ti voglio maritare all’acqua del mio secchio’. Rispose il vino all’oste: ‘Fai le pubblicazioni. Sposo l’idrolitina del cavalier Gazzoni’…”. Il surrogato chimico, il vino giudiziosamente annacquato per risparmiare, il vispo sapore della bevanda garantita dalla rispettabilità di un ‘cavaliere’: in questi versi ingenui e un po’ pomposi è racchiusa tutta l’Italia pre-industriale, con la sua austerità obbligatoria e i suoi frugali diletti, come il panettone Motta, il liquore Strega, il formaggino Mio, debitamente magnificati. Verso la fine degli anni ’50, tutto ciò venne improvvisamente ‘scavalcato’ dall’avvento, pressoché simultaneo, della televisione e delle agenzie pubblicitarie (Lintas, Thompson, Mc Cann, Young & Rubicam, Leader), le quali iniziarono ad abbinare ‘advertising’ e ‘marketing’ applicando alla vendita dei prodotti una vera e propria scienza della comunicazione. I messaggi divennero ben presto ‘impressivi’, sottilmente ricattatori, preceduti da analisi motivazionali o da indagini di psicologia sociale sulle aspettative crescenti: chi non usava un certo detersivo che ‘lava più bianco’ veniva fatalmente considerato un individuo poco pulito; chi non sgranocchiava determinati biscotti energetici faticava a reggere il ritmo di un’intensa giornata di lavoro; chi non acquistava una cucina componibile era un disinformato passatista; chi non beveva il brandy che ‘crea un’atmosfera’ sarebbe andato sicuramente incontro a disavventure amorose. Ma nel momento in cui sembrava inevitabile un generale appiattimento su tali modelli americani - determinato anche dal fatto che le compagnie del settore erano quasi tutte di provenienza americana, come le stesse tecniche di manipolazione della domanda appena citate - all’improvviso si schiuse, quasi fortuitamente, una ‘via italiana’ alla pubblicità con la nascita di ‘Carosello’: un breve programma televisivo sul quale sono scorsi fiumi di inchiostro e di cui i semiologi s’innamorarono perdutamente. In buona sostanza, per consentire l’accesso della promozione commerciale alla fascia d’orario di maggiore ascolto, la Rai impose alle ditte interessate di mandare in onda uno spettacolo di 155 secondi scevri da ogni riferimento alla ‘réclame’, comprimendo in un ‘codino finale’ di 35 secondi l’illustrazione del prodotto che si intendeva proporre al consumo di massa. C’era di mezzo la salvezza dell’anima. Per l’esattezza, dell’anima non commerciale della televisione italiana. La quale, in realtà, era un’anima ‘bicipite’, poiché montava la guardia, da un lato, ai privilegi di quella parte del ceto politico che deteneva il controllo esclusivo della Rai e non intendeva essere in alcun modo condizionata e, dall’altro lato, alla continuità di una tradizione culturale accademica ‘schifiltosa’, che per lungo tempo ha regolarmente accantonato tutto ciò che non possedeva un’ispirazione ‘alta’. In tale contesto, l’inserimento della pubblicità all’interno del palinsesto della nostra televisione nazionale dovette obbedire a criteri di particolare cautela. E l’accorgimento che permise alla Rai, partitica e colta, di fare quella cosa mercantile e ‘sporca’ chiamata pubblicità fu quello di programmare gli annunci nell’ambito di rubriche appositamente riservate, allo scopo di assicurarne la massima efficacia senza interferire nelle normali trasmissioni. Ebbene, proprio siffatti ‘binari’, particolarmente ‘stretti’, finirono con lo stuzzicare l’intelligenza e la fantasia dei ‘creativi’, chiamati non solo a realizzare storielle originali, ma anche e soprattutto a inventare un ‘raccordo’ con il ‘codino’ che non isolasse l’annuncio pubblicitario rendendolo melenso, incomprensibile, ‘posticcio’. Ecco, perciò, le gemelle Kessler - due ballerine tedesche dalle gambe perfette - che danzavano inguainate nelle inimitabili calze Omsa; lo spietato tenente Sheridan - un detective dall’aria dura, con i lineamenti di un Humphrey Bogart, interpretato da un indimenticabile Ubaldo Lay - che tracannava il suo vigoroso e maschile Biancosarti; il pigolante pulcino Calimero, tartassato da tutti perché ‘piccolo e nero’, che ridiventava bianco immergendosi nella morbida schiuma di Ava; l’infallibile ispettore Rock, un poliziotto completamente calvo che non aveva mai commesso errori in vita sua, salvo quello, imperdonabile, di non essersi spalmato in testa la brillantina Linetti. Non sempre la fusione riusciva alla perfezione, poiché spesso si scivolava inavvertitamente nel ‘vampirismo’: quanto più un attore era simpatico o un cartone animato suggestivo, tanto meno lo spettatore li associava alla merce che l’inserzionista voleva vendere. I personaggi, insomma, talvolta ‘cannibalizzavano’ i prodotti che volevano convogliare. Come capitò, per esempio, ai ‘conici’ Carmencita e Caballero, o agli ‘sferici’ abitatori del pianeta Papalla - usciti dalla versatile matita di Armando Testa - i quali procurarono grande celebrità al loro autore, ma giovarono piuttosto poco al caffè Lavazza e ai televisori Philco. In ogni caso, ‘Carosello’ ebbe il merito di far passare inosservato il bombardamento pubblicitario a cui vennero sottoposti gli italiani del ‘boom’ economico, mitigandone l’invadenza con un sorriso, lo scherzo, la celia, l’ironia. E il suo messaggio fondamentale, anche se non ancora brutalmente edonistico, fu modernizzante e ‘novatore’: richiamandosi allo schema trinitario della famiglia nucleare condusse alla ribalta una mamma seducente che cucinava alla svelta grazie alla carne Simmenthal; un babbo ‘senior executive’ che si rilassava sorseggiando un Campari soda; un bebè che scorrazzava felice per casa infagottato nei suoi pannolini Lines. Non mancarono, tuttavia, le enunciazioni rassicuranti, le sfumature tradizionaliste, le proposte di consumi in totale contraddizione tra loro: si poteva benissimo ‘mettere un tigre nel motore’ e, poco dopo, premunirsi ‘contro il logorìo della vita moderna’ bevendo un amaro al carciofo. Oppure, brindare esclamando: “Oggigiorno tutto è una lusinga: dura minga, dura no. Vive solo chi non se la prende e cantare sempre può. Fin dati tempi dei garibaldini: China Martini”. Insomma, perché avesse inizio l’era di una pubblicità ‘hard’, disinibita e irriverente, fu necessario attendere gli anni ’70, quando fece epoca un manifesto della Jesus jeans che mostrava un vezzoso ‘sedere’ di donna, solo parzialmente coperto da lacerti di calzoni, sul quale campeggiava lo slogan: “Chi mi ama, mi segua”. Nessuno, oggi, demonizza più il consumo come espressione di licenza e sfrenatezza. Una colpevolizzazione che, spesso, risulta il chiaro sintomo di frustrazioni inconsce. Tuttavia, la società che ne è derivata ormai rappresenta una sorta di congegno perverso, che priva i singoli individui di ogni soggettività condannandoli all’interdizione di ogni progetto personale. Il consumo può anche essere visto come un esercizio di libertà, o arricchire la vita di esperienze positive regolando i rapporti sociali secondo modalità tendenzialmente ‘corrette’. Occorre, tuttavia, che accanto a tutto ciò una forte educazione e una grande cultura collettiva lo subordino a valori che, in sé e per sé, il consumo stesso tende a non contemplare, al fine di neutralizzarne, o per lo meno attenuarne, la micidiale vocazione ‘dissipatrice’. Quando, invece, il consumo resta del tutto immune da presupposti etici o, peggio ancora, ambisce a fondare una propria ‘morale’ in cui il piacere, la sicurezza e la gioia sono pura funzione del possesso e delle perfomances garantite dalle ‘cose’, la sua autosufficienza ‘ideologica’ diviene tale da generare, automaticamente, un potere che non sa più cosa farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ‘ubbie’ affini. Nell’Italia di oggi, il consumo è divenuto una divinità suprema poiché una congiuntura storica assolutamente straordinaria - quella di un’espansione che ha coinciso quasi perfettamente con l’effettiva unificazione demografica e sociale del Paese - lo ha ‘caricato’ di cifre simboliche addizionali, svincolandolo da obbedienze, discipline e cautele di qualsiasi natura. In altri termini, si è finito col travisare il consumo in quanto ‘segnale’ di riconoscimento, che ha permesso agli uomini del nord e del sud, della città e della campagna, delle classi più elevate e dei ceti popolari, di accettarsi reciprocamente con una naturalezza che Chiesa, lingua, Partiti politici, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare, costringendo l’Italia intera a passare, nel giro di pochi decenni, da una cultura cattolico-tradizionalista a una forma estrema di ‘neo-materialismo’ inculcato dall’opulenza. Senza alcuna ‘fermata’ intermedia.




Direttore responsabile di www.laici.it e di www.periodicoitalianomagazine.it
(articolo tratto dal sito www.periodicoitalianomagazine.it)
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Roberto - Roma - Mail - domenica 23 febbraio 2014 23.23
Articolo indubbiamente autorevole, che fotografa un percorso storico ben preciso. A patto che lei comprenda che molte scelte della gente del popolo e dei ceti subalterni fatalmente provengono più dalla loro "pancia" che dalla loro "testa".....
Vittorio Lussana - Roma/Milano/Bergamo - Mail - domenica 23 febbraio 2014 7.57
RISPOSTA A CRISTINA: carissima lettrice, in linea di principio sarei anche d'accordo con lei, ma un'analisi generale deve tener conto di tendenze statistiche che dimostrano come grandi masse si lascino condizionare e omologare dai consumi. Non riconoscere il problema dell'omologazione delle persone in quanto fenomeno globale sarebbe come ritenere corretto che il consumo stesso possa detenere una propria autosufficienza ideologica. Noi, invece, pensiamo che anche il libero arbitrio debba essere subordinato a dei valori e a una grande cultura collettiva, in cui il Paese sappia riconoscersi. Il consumo 'svincolato' non solo diviene, talvolta, sregolato, ma genera guasti insanabili. E' un po' la differenza tra chi riesce a guadagnarsi un posto nella società e chi, invece, lo eredita per diritto di successione o per raccomandazione: nel secondo caso, può verificarsi facilmente l'incapacità a gestirsi o l'eventualità di dissipare il patrimonio ricevuto in eredità. E' un poco la stessa cosa: il consumo può regolare la vita delle persone secondo tendenzialità corrette, poiché ovviamente non stiamo teorizzando una società assolutista, fortemente burocratizzata. Ma una società dei consumi non può essere autosufficiente, perché si finisce col certificare la contraddizione libera. Ad esempio quella di essere molto liberali sulle comodità personali o private e molto chiusi in merito ai diritti pubblici o nei confronti di un'idea inclusiva di società...
Cristina - Milano - Mail - domenica 23 febbraio 2014 7.49
Bello l'excursus, ma l'individuo può sempre avvalersi del libero arbitrio, se dotato di qualche neurino funzionante.......
Marina - Urbino - Mail - domenica 23 febbraio 2014 7.44
Vero !
Massimo - Roma - Mail - domenica 23 febbraio 2014 7.23
Uno spunto interessante, che dovrebbe indurre ad approfondire, finalmente, il linguaggio della pubblicità, con tutte le sue tecniche e storiografia, dall'uso dei colori, alla persuasione occulta, dai messaggi subliminali, al direct marketing e al range marketing, fino al widebody marketing, da noi in auge solo dagli anni 90. Per non parlare di tematiche come il feticismo delle merci e la comunicazione neurolinguistica.


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