Ilaria CordìIn Italia, la funzione amministrativa viene svolta con regole vecchie e attraverso rigidità a cui si accompagnano improvvisazione e sprechi. Molti esempi negativi di mal funzionamento e di cattiva gestione sono innanzi ai nostri occhi: il processo di rinnovamento che ha impegnato la Pubblica Amministrazione in questi ultimi quindici anni si è caratterizzato per una cattiva ‘aziendalizzazione’ dei diversi soggetti interessati. In particolar modo, attraverso una separazione tra poteri di indirizzo e poteri di gestione, che hanno sostanzialmente mancato quegli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità che si erano proposti. Attraverso la misurazione dei risultati - sia in sede di programmazione, sia di monitoraggio - della gestione degli enti pubblici locali, nonché mediante la loro rendicontazione, ci si è resi conto che determinate conoscenze acquisibili servivano non solo a soggetti terzi o alla gestione amministrativa stessa, ma soprattutto alle diverse articolazioni della società civile e dei cittadini: in pratica, non si è fatto altro che scoprire ‘l’acqua calda’. La logica economico-aziendale all’interno della quale ci si era mossi non è stata, in sostanza, quella di nuove forme di organizzazione basate su ‘team’ o ‘squadre di lavoro’ più efficienti, ma si collegava direttamente a una riflessione ben nota: quella che teorizzava una sostanziale assenza di un sistema di mercato, che imponeva forme diverse di competizione all’interno dei distinti enti amministrativi fra i diversi responsabili della gestione e tra gli enti stessi, sulla base di un sistema informativo che avrebbe dovuto fornire concrete e confrontabili conoscenze nella direzione dell’efficienza, dell’efficacia e dell’economicità. In base a tali assunti, il controllo sociale che si sarebbe dovuto determinare doveva sostituire, in un certo senso, il mercato. In particolare, sotto il profilo della creazione di condizioni alternative di competitività. Ebbene: tutto questo non si è mai realizzato. Un colpevole ricorso a discutibili società di gestione esterna di molti servizi, insieme ai tanti consueti vizi del nostro tessuto amministrativo, hanno finito col portare il sistema nel suo complesso sull’orlo del collasso, senza fargli raggiungere gli obiettivi di innovazione e di efficienza auspicati. Noi comprendiamo come risulti difficile riuscire a far funzionare una macchina amministrativa assai complessa come quella composta dalle diverse articolazioni dello Stato. Tuttavia, bisogna anche dirsi in faccia le cose per come stanno: la subdola mentalità che concepisce la funzione amministrativa non come un mezzo per ottenere finalità pubbliche, ma come semplice fine per l’occupazione di posizioni di rilievo o per la sponsorizzazione di determinati soggetti privati, ha sostanzialmente reiterato forme di clientelismo, generando una strana forma di economia basata su amicizie e relazioni, ‘furbetti del quartierino’ che hanno imperversato nella corsa ad aggiudicarsi i più appetitosi appalti pubblici. Ogni antico valore di servizio da offrire alla collettività, ogni ideale di seria lealtà istituzionale è crollato definitivamente. Era questo ciò che doveva fare la seconda Repubblica, quella che si doveva liberare dalla partitocrazia e dall’iperpoliticizzazione? Proprio in questi tempi, ci ritroviamo ad affrontare una crisi economica e industriale che imporrebbe al nostro ‘sistema-Paese’ una forte stimolazione pubblica, al fine di incentivare investimenti strutturali. Non siamo nei guai, come molti analisti ritengono, ma non siamo nemmeno nella condizione di poter agganciare la ripresa in arrivo a causa della gravissima arretratezza e inefficienza della nostra macchina ‘burocratico-amministrativa’. Siamo sostanzialmente immobilizzati dal nostro enorme debito pubblico, che priva gli enti locali della possibilità di compiere quelle funzioni di stimolazione e di intervento necessarie affinché il tessuto economico reagisca a una crisi deflattiva assai profonda. L’apparato della Pubblica Amministrazione rimane inefficiente e scarsamente innovativo, lento a recepire le richieste che provengono dall’esterno. E la funzione politica di indirizzo stimola poco e male l’iniziativa privata a cimentarsi in iniziative coraggiose, in grado di generare nuove forme di occupazione e fornire risposte innovative ai bisogni della collettività. Il Paese, sotto il profilo della modernizzazione, si muove troppo lentamente e con costi troppo alti, regalìe, clientelismi, relazioni assai discutibili tra istituzioni e imprese. La fotografia che ne esce è impietosa: una macchina ingessata, che non solo non tutela più nessuno, ma che non è più in grado di garantire veramente alcunché. La privatizzazione degli enti municipalizzati è stata sino a oggi eseguita con risultati opinabili: lo Stato dovrebbe essere più snello e svolgere una funzione di coordinamento e di controllo nel nome e all’interno di un’etica pubblica che, tuttavia, rimane un concetto misterioso proprio nella mentalità di chi viene chiamato a operare tali mutamenti. I tempi di ogni risposta concreta da fornire alla domanda di maggior efficienza proveniente dalla cittadinanza rimangono disastrosi. E ciò a causa sia di una sostanziale rigidità burocratica, sia di una ‘casareccia’ mescolanza tra interessi pubblici e privati. Non c’è nulla da fare: il nostro rimane un Paese ‘arlecchinesco’ e confusionario in tutto ciò cui si tenta di porre mano. E tralasciamo il consueto elenco di ruberie e malversazioni, anche per non togliere a nessuno la voglia di continuare a vivere in un Paese così malmesso. Vogliamo affrontare veramente il tema della gestione di molti enti locali? Ebbene, i casi di vera e propria vessazione della cittadinanza sono sotto gli occhi di tutti. Il problema che si pone non è di semplice soluzione, poiché discende da questioni che sono soprattutto di natura politica, incancrenitisi in un Paese che ha sostanzialmente rinunciato alla politica stessa e che ancora stenta a rendersi conto di essere finito, direttamente, dalla ‘padella’, nella ‘brace’. Ma un Paese composto di caste, ‘controcaste’, conventicole, famiglie e famigliole, compagni di merenda, mafie e ‘mafiette’ è veramente in grado di cogliere le possibilità migliori da una possibile mutazione della forma di governo dello Stato? Le grandi riforme che abbiamo di fronte e che ci vengono servite come la panacea di tutti i mali, se non saranno inserite in un quadro giuridico, etico e civico ben preciso porteranno solamente a una definitiva ‘deistituzionalizzazione’ della nostra amministrazione pubblica, a una deriva utilitaristica e privatista della nazione. Il problema di una riforma dello Stato crediamo debba passare per l’individuazione di un nuovo ruolo che lo Stato dovrà avere. E che, a nostro parere, non può essere riassunto nella semplice formula del principio di sussidiarietà rispetto alle autonomie territoriali. La vera risposta a una pur auspicabile riforma della macchina amministrativa nelle sue distinte articolazioni non può che essere una risposta laica, indirizzata verso un rilancio effettivo di quell’educazione civica che sembra letteralmente mancare nello spirito e nella natura pratica dei comportamenti individuali e collettivi.


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