Clelia MoscarielloInterviste nel mondo della cultura che comunichino valori ai giovani possono fare in modo che non si perda “la  memoria storica, in un tempo in cui tutto scorre così veloce”. Questo l’obiettivo di Ettore De Lorenzo, giornalista Rai, inviato, docente di comunicazione e giornalismo televisivo, autore del libro: ‘Quando avevo vent’anni - 1992/2012 - Interviste, riflessioni e ricordi su Falcone e Borsellino’, edito da L’Isola dei Ragazzi. Un'opera che racconta, attraverso interviste a personaggi come Diego Bianchi, Attilio Bolzoni, Caparezza, Luigi de Magistris, Raffaele Cantone, Franco Battiato, Daniele Vicari, le stragi di Capaci e di via D’Amelio a chi non le ha vissute. L’autore si pone l’ambizioso obiettivo di divulgare il testamento morale lasciato dai due giudici alle generazioni successive e di diffondere la cultura della legalità nei giovani. “La vita è meravigliosa e bisogna fare in modo che tutti lo sappiano: chi lo sa, ha la responsabilità di trasferire questo amore alle generazioni che vengono”, ci ha spiegato Ettore De Lorenzo in questa intervista, ricca di spunti interessanti per riflettere insieme e tentare di consegnare un mondo migliore alle nuove generazioni.

Ettore De Lorenzo, cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?
“Scopo del libro è quello di raccontare ai giovani che 20 anni fa non c'erano, o non hanno un'esperienza diretta di quegli anni, cosa accadde nel 1992. Il tentativo è cioè quello trasferire ai ragazzi quei valori, un sistema di valori, che incarnavano due grandi uomini dello Stato come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i quali hanno sacrificato la loro esistenza in nome del Paese, della giustizia e della libertà. Tanti ragazzi che oggi hanno dei riferimenti meno autorevoli nel nostro sistema socio-politico,  hanno bisogno di affondare le loro mani e i loro piedi nella Storia e nella memoria, ma se qualcuno non gliela racconta non è possibile farlo. Quindi, mi sono rivolto direttamente ai ragazzi, in questo libro, per tentare di rimetterli in contatto con il patrimonio, l'esperienza e l'eredità di due grandi uomini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”.

In questo lavoro vi sono varie interviste a personaggi del mondo della cultura e della politica, toccando vari argomenti: come mai ha deciso di rievocare le stragi di Capaci e di via d’Amelio seguendo questa prospettiva?
“Le interviste sono state realizzate con quelle persone che, nel 1992, avevano all’incirca 20 anni, le quali sono state rimesse in contatto con l'emozione che hanno vissuto allora,  quando hanno recepito la notizia delle due stragi. Molti di questi personaggi hanno un certo appeal verso i giovani, come  Franco Battiato, Daniele Vicari ( il regista del film ‘Diaz’), Caparezza, Frankie hi nrg, il primo rapper italiano a scrivere la sua prima canzone proprio nel ‘92 contro il sistema della mafie: ‘Fight Da Faida’. Le interviste non sono casuali, ma sono state scelte in modo da poter essere collocate in uno spazio dove i ragazzi possano riconoscersi. Anche le prime due, quelle a Luigi de Magistris e Raffaele Cantone, non sono state realizzate nelle loro ‘vesti’ attuali, ma in qualità di ex magistrati, oppure magistrati, perché entrambi avevano 25 anni al tempo delle stragi e perché Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno rappresentato due modelli a cui ispirarsi. Di conseguenza, la loro testimonianza  è particolarmente viva e importante. Addirittura, Luigi de Magistris ha sostenuto l’esame orale per entrare in magistratura la sera prima della strage di Capaci - il 22 maggio 1992 - e in commissione d’esame c'era la moglie di Giovanni Falcone, Francesca Mordillo, che Falcone stesso andò a prendere quella sera, ignaro di quel che sarebbe loro accaduto il giorno dopo”.

Lei lavora molto nelle scuole ed è sensibile alle tematiche giovanili: si sente una “mosca bianca” a credere nei giovani in questi tempi così precari?
“Io stesso, all’epoca delle stragi, ero un giovane cronista: avevo 25 anni. In questo caso, per avvicinarmi ancor di più ai giovani di più, ho voluto mettere sul ‘piatto’ la mia vita, ho raccontato le mie esperienze, perché ritengo che la credibilità si acquisti solamente se ci si mette un po’ a nudo. Io l'ho fatto con piacere, anche se con po' di pudore. Lavorando molto con i giovani ho infatti compreso che i ragazzi del nostro tempo hanno una ricchezza inestimabile: la capacità intuitiva, la capacità di connettersi gli uni agli altri in un modo molto forte, in un tempo di personaggi digitali. E l’aspetto che ritengo fondamentale è la loro capacità di sognare, perché il tempo che viviamo è piuttosto cupo, passivo. Il messaggio che giunge continuamente ai ragazzi è quello che non esiste la possibilità di lavorare, quello di non poter aspirare a una pensione dignitosa in futuro: il ‘segnale’ che arriva, dunque, è la volontà di voler ‘smontare’ il sogno dei ragazzi. Io, invece, sono fermamente convinto che un Paese in cui i giovani non sognano sia destinato a morire e ho sentito il dovere morale di accompagnare i ragazzi verso i loro sogni, per permettere loro di avere autostima e fiducia nella vita e nell’Italia”.

Com'è nata l’idea del libro?
“Nasce dal lavoro di svariati anni nelle scuole: io utilizzo il mio mestiere di giornalista cercando, con strumenti vari, di approcciarmi ai giovani. Il mio primo obiettivo è quello di far loro aprire gli occhi sulla realtà che hanno attorno, che molto spesso, purtroppo, subiscono solamente senza riuscire a conoscerla realmente. Questo obiettivo tento di realizzarlo lavorando attraverso l'inchiesta e l’indagine sulla realtà. In questo modo, spero di aiutarli a possedere una maggior consapevolezza. Il secondo obiettivo di quest’opera è di ‘smontare’ e ‘rimontare’ la televisione, facendo acquisire strumenti di analisi critica che consentano lor, in seguito, di avere atteggiamenti più positivi verso la televisione. Devono imparare che non esistono assoluti: la televisione è un mezzo neutro, che tuttavia rappresenta degli interessi. Io invito i ragazzi a guardare più telegiornali, più siti d’informazione, in modo che possano costruirsi una loro idea personale. I ragazzi devono comprendere che siamo noi che decidiamo la prospettiva che vogliamo scegliere, che esiste sempre un’idea o l'interesse di qualcuno alla base: ciò aiuta i ragazzi a districarsi meglio nel mondo della comunicazione e a farli diventare meno alienati. Terzo obiettivo, il più importante di tutti, è che lavorando insieme ai giovani, essi acquisiscono maggior fiducia in loro stessi. Ripristinare questa fiducia è infatti il primo dovere di un genitore, ‘genitore’ anche in senso generazionale. Io ritengo che noi abbiamo avuto la possibilità di coltivare i nostri sogni,  mentre invece questa generazione è ‘sui generis’, poiché per la prima volta consegniamo ai nostri figli un Paese peggiore di quello che ci hanno lasciato. E questo lavoro che svolgo presso i ragazzi, credo sia predominante per provare a rimettere in moto qualcosa”.

Il messaggio che si sente di dare alle nuove generazioni?
“Noi dobbiamo essere felici. Io inizio sempre un mio corso ai ragazzi con una specie di ‘mantra’ di Dostoevskij: “La vita è meravigliosa e bisogna fare in modo che tutti lo sappiano”. Aggiungo che, chi lo sa ha la responsabilità di trasferire questo amore per la vita a chi non riesce a possederlo, per diverse ragioni. Quindi, io che amo furiosamente questa vita sento il dovere e, soprattutto, il grande piacere, l'emozione e la responsabilità di dover trasferire questo amore per la vita alle generazioni che vengono”.

A quale fascia di età si rivolge in questo suo impegno presso le scuole?
“Mi rivolgo a una fascia di età che va dai 7 fino ai 25 anni, personalizzando ovviamente gli strumenti, gli atteggiamenti, i linguaggi, le formule, gli strumenti, i giochi. Con i bambini si lavora più sul gioco, sulla creatività. Con i ragazzi, invece, posso  razionalizzare un po’ di più. Tuttavia, l’esperienza di volta in volta mi insegna che sono proprio i ragazzi a far apprendere a me come comporre e come agire con loro: l’importante è essere aperti e disponibili, quello che, purtroppo, molti di noi hanno smesso di fare”.

Cosa crede debba cambiare nel linguaggio della televisione, dato che ne ha più volte parlato in questa intervista?
“Ho dedicato un capitolo del libro a Pier Paolo Pasolini, che 40 anni fa predisse  che la televisione avrebbe portato all’omologazione e alla massificazione, facendo sì che il cittadino consapevole sarebbe diventato un consumatore passivo: questa è la vera ‘fortuna’ dei mass media del nostro tempo, purtroppo. Tuttavia, molti ragazzi oggi posseggono una possibilità ulteriore: la rete di internet. Internet ha se le sue falle, poiché la rete è piena di ‘trappole’: è un ‘mare magnum’ in cui ci si può disperdere facilmente. Inoltre, la ricerca delle fonti è più complicata e controversa di quanto non si creda, poiché spesso i ragazzi rischiano di dare per buone delle ‘bufale’, oppure forme di sintesi comunicazionale che, spesso, ignorano cose importanti. In ogni caso, non si può di certo ignorare come lo scenario sia cambiato profondamente, negli ultimi 15-20 anni, grazie all’avvento dell’era digitale, la quale ha reso la televisione ‘vecchia’, un mezzo che non riesce più a parlare ai giovani. I giovani stessi non la guardano più e cercano su Youtube i programmi disponibili. Dobbiamo cambiare il linguaggio della televisione, ma soprattutto fare in modo che venga introdotto, almeno nei percorsi formativi-didattici delle scuole superiori, il linguaggio della televisione e dei mass media - una materia che ancora non esiste - attraverso l'autonomia scolastica delle Regioni, per cominciare a lavorare con le nuove generazioni fin da subito, nelle scuole. Bisogna fare in modo che i ragazzi stessi possano elaborare e produrre dei format. Tornando a Pier Paolo Pasolini, l'economia e il mercato hanno un potere assoluto,  per cui la televisione viene utilizzata come strumento per indurre e generare consumo, a desiderare modelli e stili di vita: tanti ragazzi, oggi, si riconoscono negli smartphone, nelle scarpe che comprano e non nell’esperienza della vita. Rischiamo di estinguerci in quanto esseri pensanti e ciò rappresenta il rischio più pericoloso che corriamo. Dobbiamo impadronirci dei sistemi di comunicazione: non è semplice, ma è possibile, con gli strumenti di oggi  e la tecnologia. Questo è il motivo per cui lavoro tanto con i ragazzi:  per renderli autonomi, sia come fruitori, sia in quanto possibili  produttori. Per me, bisogna creare strumenti di alfabetizzazione e partecipazione: oggi, con gli iphone riesci a fare cose incredibili. Riprodurre un racconto in audio-video è alla portata di tutti e la distanza tra produzione e contenuti si è annullata, ma invece che utilizzare i telefonini di ultima generazione per raccontare lo ‘scherzetto’ del ‘bullo’ di turno, questi andrebbero utilizzati per raccontare la vita, magari la cronaca. Le nuove generazioni hanno la possibilità tecnologica di filmare anche episodi gravi, come il borseggiatore fuori la scuola. In tal modo, non solo svolgerebbero un lavoro, ma aiuterebbero la comunità, facendo in modo che certi eventi spiacevoli accadano sempre meno. Lo scopo dei formatori e degli informatori dovrebbe essere quello di  indirizzare gli strumenti nel modo più sano possibile”.

Cosa è emerso dalle varie interviste del suo libro?

“Che il G8, questione trattata da Daniele Vicari nel film ‘Diaz’, è stato un momento in cui una generazione che si è ribellata e ha provato a dire ‘questo non mi piace’, oppure ‘voglio un altro mondo’ è stata massacrata. E’ stato un tentativo per ‘zittirli’. Non è causale che, dopo Genova, non ci sia stato più nessun movimento: sono stati tutti messi a tacere. Questo drammatico episodio è pertanto funzionale al racconto del libro, perché un ragazzo non può aver fiducia nelle istituzioni se in tutti i grandi delitti e nelle grandi stragi non c’è mai un mandante o, al massimo, solo dopo moltissimi anni si riescono a scoprire gli esecutori materiali. Sappiamo che Falcone l’hanno ucciso Brusca e Riina. E Borsellino? Cosa è  successo veramente? Al G8, così come nelle altre stragi degli anni ‘70 e ‘80, se non si riesce a risalire al mandante e alla vera ragione per cui si creano certe situazioni, si crea un clima di sfiducia verso le istituzioni”.

I mass media hanno una responsabilità anche in questo?
“Direi che, in questo, la loro responsabilità sia enorme”.

La prefazione del libro è stata curata da Salvatore Borsellino, fratello di Paolo: ci racconta come è avvenuta tale collaborazione?
“Gli abbiamo inviato la bozza del libro, che gli è piaciuta tantissimo poiché ha colto lo spirito di divulgazione, sopratutto tra i giovani. L’obiettivo, infatti, è quello di mantenere alta l’attenzione sulla memoria, affinché non svaniscono questi valori e queste testimonianze. Salvatore Borsellino ha aderito con grande entusiasmo e mi ha inviato la prefazione dopo 3 giorni: lo ringrazio tantissimo”.

L'atteggiamento del Nord e del Sud in Italia, rispetto alle mafie, è diverso, secondo lei?
“Il denaro della mafia viene investito nel Nord’Italia, in Emilia Romagna, in Lombardia, nell’edilizia, nella varie imprese e nella finanza. Attraverso il riciclaggio del denaro, la mafia è riuscita a risultate ‘pervasiva’ anche al Nord. Noi meridionali abbiamo una maggiore consapevolezza nei confronti delle mafie, ma questo non ci aiuta molto perché le persone, da sole, non possono fare nulla. Ma non si può passare la vita ad aspettare: è necessario che le istituzioni facciano la loro parte e facciano sentire ai cittadini la loro vicinanza. Solo così i cittadini torneranno a fidarsi e riterranno più conveniente rivolgersi allo Stato e non chiedere aiuto ai criminali. Al Nord si tende a girare la testa dall'altra parte, un po' per ‘perbenismo’, un po' perché il fatto non li riguarda da vicino. Al Sud, invece, le mafie agiscono sul controllo del territorio attraverso azioni violente e intimidatorie. In un contesto in cui esiste molta disoccupazione offrono alle persone la possibilità di guadagnare danaro facilmente. Al Nord, questo non accade. Questa è stata a la grande intuizione di Giovanni Falcone: quella di lavorare nelle scuole per intercettare i capitali. Purtroppo, il livello delle connivenze resta sempre troppo alto.”

Quale è stato, secondo il suo punto di vista, il testamento morale che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno lasciato nel tempo?
“Un grande amore per la propria comunità, per i grandi ideali, la giustizia e la libertà, ma anche un grande coraggio: il coraggio di avere paura. Borsellino sapeva che sarebbe morto, ma è rimasto lì con la sua famiglia. Poteva chiedere un trasferimento e, forse, non tutti sono a conoscenza che il suo ultimo scritto è una lettera indirizzata a una maestra dei figli, nella quale si scusava perché non poteva andare a scuola a parlare con gli insegnanti. Questa umanità, questa fragilità dell'umano, messa a disposizione di un Paese intero, di una comunità e della collettività è l'atto più coraggioso che un essere umano possa fare. Personalmente, cerco di insegnare ai ragazzi che la paura fa parte della vita e di non aver timore delle zone ‘buie’: è importante, invece, conservare la fiducia nei grandi ideali”.

Secondo lei, questi valori si sono trasformati nella società attuale?
“Sì, ma alcuni sono universali, come l'amore per il bene comune, per la collettività, per il proprio Paese, Si trasformano nel tempo, ma hanno un grande radicamento e il tentativo di questo libro è proprio quello di fare in modo che non si perda questo radicamento. In tal senso, è importante il lavoro di costruire una memoria in un tempo in cui tutto scorre così veloce. Dunque, il tentativo di fondo di questo libro è che non si perda questa memoria. Cambiano i linguaggi, i contesti e i valori si trasformano, ma rimanendo sempre uguali”.

Esiste la ‘memoria storica’ in questo Paese?
“Siamo un Paese che ha fatto nascere comuni e campanili, già tra un comune e l’altro ci sono delle faide. Siamo troppo individualisti e proprio per questo ritengo che la testimonianza di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sia così importante: più che modelli e ed eroi, essi sono stati dei Maestri. I modelli si eleggono e gli eroi diventano tali perché muoiono, ma si muore perché si resta soli. Per me, Falcone e Borsellino sono i Maestri e loro hanno rappresentato degli esempi, ma ce ne sono tantissimi altri”.

Il libro si propone anche di diffondere la cultura della legalità nei giovani: che consiglio si sente di dare alle nuove generazioni?
“Buttatevi nella vita, affrontatela a viso aperto, abbiate paura, ma non ‘paura della paura’. Molto spesso viene detto ai ragazzi che la globalizzazione è ‘brutta e cattiva’,  ma ormai ci siamo ‘dentro’, dunque dico loro di utilizzarla, di gettarsi nel mondo, di scoprirlo, viaggiare e appassionarsi”.

Ma le come vede i giovani contemporanei, dato che il libro è dedicato a loro?
“Sono spaesati, senza grandi modelli, con una televisione brutta e una scuola che  cade a pezzi. In più, esiste la difficoltà nel riuscire a seguire dei Maestri, ma i nostri ragazzi sono molto più intelligenti, sensibili e intuitivi di noi”.


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