Susanna SchimpernaSono passati undici anni, è vero. Eppure, lo ricordo benissimo. Ricordo che nessuno disse una parola, che i Tg italiani avevano altro di cui occuparsi, che i giornali non registrarono la notizia neppure in poche righe. In Inghilterra, invece, l’annuncio venne dato così: “E’ morto per una complicanza al fegato l’animalista-terrorista Barry Horne, che da quindici giorni aveva intrapreso un nuovo sciopero della fame e si trovava nell’ala del reparto ospedaliero della prigione di Long Lartin, Worcestershire”. Un comunicato da cui erano state volutamente omessi dei dati fondamentali e aggiunta una definizione quanto meno inesatta. Intanto, la complicazione non era insorta all’improvviso, provocando altrettanto improvvisamente la morte. Horne era al quarto sciopero della fame e, già dopo il terzo, durato 68 giorni, stava malissimo, con danni evidenti agli organi vitali; avrebbe forse potuto salvarsi con un adeguato ricovero ospedaliero e un diverso trattamento, ma tutto questo era stato reso impossibile perché chi ne aveva il potere non volle modificare la categoria a cui era stato inchiodato, quella maledetta ‘A’ che indica un prigioniero “pericoloso e violento”. Appunto: pericoloso e violento, come i terroristi di solito sono. Quel marchio di animalista-terrorista di cui vengono gratificati tutti coloro che non si limitano a sperare in una società in cui gli animali non vengano più imprigionati e torturati, ma ogni volta che se ne presenti l’occasione passano all’azione diretta, liberandoli, è ovviamente ingiusto, artatamente creato per terrorizzare chi non sa nulla dell’impegno animalista, bugiardo poiché suggerisce attentati vili e uccisioni indiscriminate. No, nessuna viltà e nessuna uccisione. Barry Horne se la prendeva con i laboratori in cui viene effettuata la vivisezione, con i macchinari di morte. Non risulta abbia mai neppure preso a pugni un vivisettore e, magari, quanto gli sarebbe piaciuto! Ma l’espressione animalisti-terroristi ha un appeal troppo forte, è mediaticamente vincente: è da ingenui auspicare che ci si renda conto della sua intrinseca falsità e si smetta di usarla. Quando, per esempio, nel maggio del 2006, fu data notizia della lettera di rivendicazione dell’incursione antivivisezionista alla Statale di Milano, “animalisti-terroristi” diventò un tormentone. Ma dato che apparve subito evidente la sproporzione tra “atto terroristico” compiuto e groviglio di angosce ed esecrazioni a seguire, qualcuno tra gli animalisti di questo tormentone quasi si rallegrò: vuoi vedere che l’opinione pubblica, meno scema di quello che si creda, si accorgerà della mistificazione? Gli “animalisti-terroristi” avevano portato via dal Dipartimento di Farmacologia dell’Università dodici conigli, molti topi (nessuno disse quanti: i topi non contano, forse non sono neppure numerabili…) e dieci cani. Tutto questo era accaduto il 27 aprile e, da allora, le forze dell’ordine, ci rassicurarono, si stavano muovendo “in maniera massiccia”. Alla ricerca dei colpevoli e dei corpi del reato (gli animali), questi ultimi classificabili, immagino, anche sotto l’etichetta “evasi pericolosi”, dato che per spaventarci ci fecero sapere che tre conigli, infettati a scopo di ricerca con un virus vaccinico, sarebbero stati portatori di flagelli, cause scatenanti di terribili epidemie, involontari agenti di morti (umane, ovviamente: le uniche morti degne di questo nome). Tutto falso, ma si doveva ottenere un ‘effetto-panico’ sulla gente, far sollevare tutti contro gli animalisti. Il video girato al momento del rapimento-prelevamento, trasmesso dai telegiornali più volte, mostra mani guantate che accarezzano i cani. Non sarebbe stato facile scatenare l’opinione pubblica contro quei liberatori gentili. Di fronte al dispiego di uomini e mezzi per ritrovate gli animali e al tentativo di impaurire la gente agitando lo spauracchio dell’epidemia, impossibile non pensare a quanto la nostra società si sia sempre, con uguale forza e rabbia, accanita nella persecuzione di chi, libero, abbia la spudoratezza di non godersi egoisticamente la libertà e osi liberare altre creature, prigioniere. La libertà come bene supremo è già in odor di peccato, figuriamoci quando la si cerchi anche per gli altri, addirittura per altri che non appartengano alla propria specie. Mancando una risposta accettabile al “cui prodest?” - perché compassione e senso di giustizia non sono motivazioni ritenute ragionevoli, come insegnò già Lombroso, per il quale la compassione eccessiva mostrata dagli anarchici verso gli altri costituiva prova certa della loro criminosa stranezza - gli animalisti attivisti diventano pazzi da mettere in condizione di non nuocere. Li si può rinchiudere, beneficare di epiteti atti a suscitare orrore, prendere in giro. Barry Horne fu preso in giro ripetutamente dal Partito laburista prima, dal Governo laburista poi. Parallelamente alle azioni insieme a vari gruppi (raccolta di firme grazie a cui fece chiudere i reparti pellicce dei grandi magazzini di Northampton, tentativo di liberare un delfino confinato da 22 anni in una piscina piccolissima, raid per liberare galline in batteria in un allevamento di proprietà del clero, liberazione di cuccioli destinati alla sperimentazione, distruzione di apparecchiature, attacchi incendiari ai laboratori di vivisezione) Horne parla con i politici e vuole convincere il governo ad aprire un’inchiesta sulla vivisezione. Il suo primo sciopero della fame termina proprio quando la sua richiesta è accolta, ma poi non accade nulla. Secondo sciopero della fame, per le promesse fatte dai laburisti alle associazioni animaliste prima delle elezioni e mai mantenute. Terzo sciopero: impegni precisi del governo Blair, nuova pagliacciata. Quarto e ultimo sciopero: dal carcere si massima sicurezza in cui è rinchiuso con una condanna a 18 anni e la voce scomoda di Barry Horne tace per sempre. Il 6 novembre, giorno della sua morte, gli animalisti attivisti di tutto il mondo hanno innalzato striscioni e fatto girare sul web queste parole: “Le anime degli animali torturati gridano per la giustizia, le loro urla da vivi sono per la libertà”. Non c’è stato bisogno di dire chi le avesse scritte.




(articolo tratto dal settimanale Gli Altri)
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