Susanna SchimpernaIntelligente, ironico e abilissimo sia nei travestimenti, sia come scassinatore, uno dei personaggi più riusciti della storia del giallo è appena tornato in libreria con un’avventura inedita, scritta da Maurice Leblanc nel 1936 e oggi finalmente pubblicata in Francia, dalle Editions Balland: ‘Le dernier amour d’Arsène Lupin’. Si tratta di un romanzo incompiuto, su cui Leblanc lavorò un’intera estate, ma non poté ultimare perché colto da un’emorragia cerebrale che lo uccise cinque anni dopo. Gli sarebbe sopravvissuto il ‘vero’ Lupin, che in quel 1936, mentre lui lo reinventava innamorato a Parigi sotto la falsa identità di urbanista e archeologo, si trovava a Barcellona per cercare di prendere accordi e rendersi utile alla Cnt, la Confederazione nazionale del lavoro, all’epoca molto amata dagli anarchici. Perché il vero Lupin, ispiratore del ladro di Leblanc, era un uomo con una vita pazzesca, integrità inattacabile, fascino talmente grande da riuscire - così racconta la leggenda - a far perdere la testa persino alla moglie del vicedirettore dell’infernale bagno penale della Cayenna, dov’era detenuto in ceppi, denutrito e sfiancato. Ma, soprattutto e anzi prima di tutto, era un anarchico. Della miglior specie. Al punto di essere definito “lo scassinatore onesto”, soprannome che gli rimase attaccato addosso, usato anche come titolo di alcune biografie a lui dedicate e di cui Leblanc non tradì lo spirito chiamandolo “Lupin, il ladro gentiluomo”. Marius Alexander Jacob nasce il 29 settembre 1879 a Marsiglia. Comincia subito a leggere e non si fermerà più. Però è povero e deve pensare anche a lavorare. Quindi, a nemmeno dodici anni si imbarca come mozzo su una nave diretta in Australia. Non gli piace, lascia la ciurma a Sydney e prova a fare il pirata, ma è un’altra delusione: troppo crudele per i suoi gusti. Torma e racconta: “Ho visto il mondo: non è bello”. E’ ammalato, soffre di strane febbri. Deve stare a riposo forzato per un po’ e, quindi, ha tutto il tempo che vuole per leggere, questa volta testi anarchici che gli presta un amico: le gesta di Sante Caserio, la vita e le idee di Kropotkin. Vuole essere come loro e pensa di fabbricare una bomba in casa. Lo arrestano mentre sta comprando l’occorrente e rimane sei mesi in galera, dove matura la sua scelta: ribelle sì, illegalità sì, ma nel pacifismo. Non si uccide se non per proteggere la propria vita e la propria libertà. Scontata la pena, non trova lavoro e presto capisce perché: la polizia, che vuole che lui accetti di fare il confidente, ha diffidato tutti dall’assumerlo. Allora decide di diventare un ladro, un novello Robin Hood. Toglierà ai ricchi (“le persone improduttive e i parassiti”) per dare ai poveri e alla causa, mentre mai toccherà medici, artisti, architetti e uomini di scienza, verso i quali prova un gran rispetto. Ruba con i suoi complici - tutti anarchici come lui, non ne vuole altri - nei magazzini dei trafficanti disonesti, nel casinò di Montecarlo. Le sue imprese sono tutte fantasiose, geniali. Quando viene arrestato, evade grazie alla complicità di un infermiere che condivide le sue idee e ricostituisce la banda, con la quale riuscirà a portare a termine più di cento azioni. Studia ogni tipo di cassaforte, impara ad aprirle tutte. Si traveste per fare i colpi e, tra i travestimenti preferiti adotta, irridente, quello da prete. Non diventa ricco: buona parte di quello che gli resta in tasca lo destina alla propaganda e ai giornali anarchici. Memorabile il suo processo: gli imputano 156 azioni, ne ammette 106. Declama la sua fede, attacca la chiesa e il clero, i giudici e i magistrati. “Ogni uomo ha il diritto di godere della vita. Il diritto a vivere non si mendica, si prende… Comprendo che avreste preferito che fossi sottomesso alle vostre leggi, che operaio docile avessi creato ricchezze in cambio di un salario miserabile. E che, il corpo sfruttato e il cervello abbrutito, mi fossi lasciato crepare all’angolo di una strada. In quel caso non mi avreste chiamato “bandito cinico” ma “onesto operaio”… Vi ringrazio molto di tanta bontà, di tanta gratitudine, Signori! Preferisco essere un cinico cosciente dei suoi diritti, piuttosto che un automa... Il ragazzo che lotta per un pezzo di pane nelle viscere della terra senza mai vedere brillare il sole può morire da un momento all’altro, vittima di un’esplosione di grisou. Il lavoratore che lavora sui tetti può cadere e ridursi in briciole. Il marinaio conosce il giorno della sua partenza, ma ignora quando farà ritorno. Numerosi altri operai contraggono malattie fatali nell’esercizio del loro mestiere, si sfibrano, s’avvelenano, s’uccidono nel creare tutto per voi… Chiusi nel vostro egoismo, restate scettici davanti a questa visione, non è vero?... Non approvo il furto e l’ho impiegato soltanto come mezzo di rivolta per combattere il più iniquo di tutti i furti, la proprietà individuale… La lotta scomparirà solo quando gi uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti”. Alla fine dichiara “sono un buon diavolo” e non chiede perdono, lo dà. I giudici che dovrebbero condannarlo a morte si convincono della sua buonafede e del suo altruismo, quindi trasformano la pena in ergastolo da scontare nel bagno penale della Cajenna, dove per sei anni Jacob resta con i ferri ai piedi mangiando solo pane a acqua. Alla frugalità è abituato: i suoi pasti non sono mai stati più di un panino al formaggio, consumato sempre con un libro in mano. Ai ferri si abituerà al punto che, tornato libero per sopravvenuta legge, continuerà a dormire con i piedi serrati come faceva in prigione. Arriva alla Cayenna a ventidue anni, in tutto ne sconta ventitré, uno più della sua età. Lo sollecitano a “convertirsi”, abiurare, chiedere la grazia. Sorride e resiste. Quando il vicedirettore perde la chiave della cassaforte, con una stecca di balena tolta a un bustino femminile e un pezzo di carta da sigarette, la cassaforte gliela apre lui, ricevendone in cambio solo qualche pacchetto di sigarette e le attenzioni della moglie del vicedirettore, ammaliata. Tornato in Francia nel 1928, si mette a fare il venditore ambulante di maglieria, si risposa (la moglie è morta mentre lui era al bagno penale) e si adopera per la causa. Insieme a Lecoin, direttore del giornale ‘Libertaire’, si batte per impedire l’estradizione di Durruti. Poi, durante la guerra, dà rifugio ai partigiani in una casa in cui presto resterà da solo, avendo come uniche frequentazioni il suo grosso cane cieco e i bambini del vicinato, che lo adorano e per i quali prepara giochi e dolci. E’ il pomeriggio di un sabato estivo del 1954: Jacob ha organizzato una festa per i ragazzini di Reuilly, il paese in cui vive. Stanco ma contento di come è venuta la festa, scrive una lettera per salutare tutte le persone che gli vogliono bene e che termina così: “… Mi considero soddisfatto del mio destino. Dunque, voglio andarmene senza disperazione, il sorriso sulle labbra e la pace nel cuore. Ho vissuto. Adesso posso morire. P.s. Vi lascio qui due litri di vino rosato. Brindate alla vostra salute”. Prepara due iniezioni di morfina. La prima per il suo vecchio cane, Negro; la seconda per se stesso. Muoiono sdraiati uno accanto all’altro.




(articolo tratto dal settimanale ‘Gli Altri’)
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