Vittorio CraxiGiacomo Matteotti non fu solo un puro eroe, ma un uomo di azione e di intelletto a cui l’eroismo aggiunge solo grandezza. “Nella vita e nelle opere di Matteotti c’è un insegnamento ancora oggi attualissimo: l’importanza della politica vissuta come fede e ideale, scienza e cultura, in diretto rapporto con la propria intelligenza e le proprie convinzioni, senza nessuna concessione agli opportunismi, alle consuetudini, alle credenze, ai miti del tempo; la politica come dovere morale e creazione dell’uomo, la politica come volontà e azione”. Non sono più i tempi tragici in cui visse, ma gli ideali di Matteotti sono ancora validi. Essi non hanno preso forma o, peggio ancora, sono finiti nelle mani di uomini e forze politiche che della nobiltà del riformismo socialista non hanno nemmeno una pallida idea, ma che, tuttavia, fanno della ‘coperta’ riformista lo scudo attraverso la quale coprire il vuoto dell’inazione politica e del superficiale mantenimento del potere. Un potere senza principi, senza valore, senza Storia. Per questo, la figura di Giacomo Matteotti non rappresenta soltanto, per noi socialisti italiani, la figura del “grande martire”, come ebbe a definirlo Sandro Pertini, ma incarna la figura, tragica un tempo, del riformista inascoltato e osteggiato in seno al movimento operaio e, al tempo stesso, il coraggioso oppositore di un totalitarismo che andava imponendosi con la forza, al quale volle contrapporre una visione addirittura anticipatrice e moderna della democrazia, nel solco di quella che poi si impose come una visione riformista della società. Egli, oggi, a distanza di anni, è martire condiviso nella memoria di tutti gli italiani, che con l’occasione del centocinquantesimo dell’Unità hanno ripercorso le tappe più significative della nostra Storia. E, nelle pagine più tragiche e dolorose, s’inscrive di diritto come il delitto politico più efferato del ventennio fascista. Il delitto su cui la storiografia a lungo si è interrogata, al pari dell’opinione pubblica dell’epoca. Delitto su commissione, certamente, ma delitto per le denunce contro i brogli o le violenze fasciste del ’24, o delitto per chiudere la bocca al deputato che si apprestava a denunciare uno scandalo che avrebbe lambito o colpito la monarchia. Va detto che in questa vittima del fascismo si identificò sempre, nella Storia, solo una parte della sinistra italiana: quella socialista. Fu sprezzante il giudizio che di lui diede Antonio Gramsci pochi giorni dopo il suo funerale definendolo: “Il pellegrino del nulla”, il difensore di una causa inutile,  ovverossia sbagliata, perduta in partenza: quella del riformismo che, più avanti, culminò con la scomunica generalizzata da parte della terza internazionale sovietica, che lo definì “social fascismo”. Fu il segretario del Partito comunista Luigi Longo che definì la morte di Matteotti “tanto più tragica, perché segna il fallimento della sua concezione, del suo Partito, del suo metodo”. La verità, invece, è che Matteotti fu un riformista moderno che mentre il Partito socialista si lacerava tra divisioni e scissioni (“sempre pro o contro il ‘coccodrillo’ russo”, diceva Anna Kuliscioff) aveva idee chiare sulla democrazia come base della libertà, sulla forma e sui doveri del Governo, sulla funzione dei Partiti e dei sindacati, sul ruolo delle masse proletarie e cittadine. In un Partito che parlava solo di lotta di classe, egli preferiva dire “Nazione”; in un Partito che si riempiva la bocca solo di rivoluzione, egli indicava i beni irrinunciabili della libertà e della democrazia. E’ stato indubbiamente un protagonista di un momento fondamentale della vita del nostro Paese: il primo ventennio del Novecento, che vide la crescita tumultuosa della democrazia e della partecipazione popolare e poi, nel periodo drammatico che precedette e seguì il primo conflitto mondiale, con la crisi e il crollo delle istituzioni liberali. Fu un uomo del ‘post-Risorgimento’, come ha osservato lo storico Romanato, che appartiene alla generazione dei Prezzolini dei Papini, di coloro a cui importava, innanzitutto, il futuro e non il passato: uomini ribelli ed inquieti. Egli proveniva da una famiglia ricca ma viveva in una provincia povera, depressa; fu questo contrasto che lo spinse a diventare socialista e, al tempo, socialismo era sinonimo di lotta di classe e di rivoluzione. Fu un uomo che lottò per il proprio ideale e non contro l’avversario: “Abbattere la borghesia”, scriveva, “è il meno. Il più è costruire e preparare il socialismo dentro di noi”. Una retorica degna dell’epoca, ma che tratteggia assai bene  un uomo politico d’azione, che sviluppa e promuove la propria fede laica per la quale non sarebbe stata sufficiente una sola vittoria elettorale. Illuminante, in questo senso, è l’efficace commento con cui salutò il successo socialista nel Polesine del 1914: “La vittoria conseguita ci riempie di gioia, non già di per se stessa o per l’odioso e stupido senso di soddisfazione d’aver schiacciato l’avversario, bensì come strumento, come mezzo più facile a una rinnovata propaganda tra i lavoratori, che trovano nel Comune socialista la tutela contro la persecuzione padronale… Ricordiamo e pensiamo soprattutto che il socialismo non è tanto nella vittoria negativa, pacifica o rivoluzionaria, sopra i Partiti della borghesia, quanto piuttosto nella vittoria positiva sopra noi stessi, nell’educazione dei lavoratori nella capacità di decidere e di agire senza tutela alcuna nell’interesse collettivo, nella attitudine a sacrificare l’apparente e immediato interesse personale al bene sociale di tutti i compagni di lavoro…”. Fu al fianco di Prampolini e Turati e, nel nascente pensiero riformista che orientò successivamente la linea futura della socialdemocrazia italiana, egli ebbe modo di definire le possibilità alternative alla rivoluzione comunista propugnata da Gramsci, definendo una piattaforma di riforma democratica dello Stato, proponendo l’allargamento della partecipazione e dei controlli assieme all’inserimento delle masse popolari nell’esercizio del potere, non per via rivoluzionaria, ma nel rispetto delle regole formali e degli avversari politici. Egli pervenne a una visione in definitiva più moderna della società italiana dell’epoca, anche in seguito a travagli successivi, ma operò sul piano teorico affinché anche il Partito socialista unitario si inserisse in un ambito politico più vasto, sollecitando diversi collegamenti di carattere internazionale al fine di portare il problema italiano all’attenzione dell’Europa. Era un uomo moderno: fu questo suo amore per la libertà, la fierezza del carattere che lo portava a respingere ogni sopruso a fare di lui il primo e il più tenace avversario del fascismo, di cui vaticinò da subito il carattere violento e autoritario. La sua lotta in Parlamento, nelle piazze, sui giornali e sui libri, cominciò nel ’21. Da allora in poi subì continue minacce, persecuzioni, attentati che culminarono nell’aggressione subita in questo stesso giorno di 81 anni fa e nel successivo assassinio. Matteotti, assieme ai socialisti riformisti di Turati, aveva colto l’essenza demagogica e pericolosa della svolta autarchica che i fascisti stavano per imprimere all’economia del nostro Paese, imponendo tariffe doganali autonome, non negoziate con le altri nazioni per i consumi essenziali quali lo zucchero, le carni, la frutta, il petrolio. In un discorso del 1923, constatava che il contrasto reale non era tra il liberalismo e il protezionismo che il regime voleva imporre per mettersi al riparo dalle speculazioni post-belliche, quanto l’immanente contrasto fra gli interessi di classe: “Chi è sempre svantaggiato e danneggiato resta il lavoratore-consumatore, anche se gode di apparenti vantaggi momentanei… Lavoriamo quindi” – diceva – “per la libertà degli scambi e sollecitiamo ardentemente con l’opera nostra la formazione degli Stati Uniti d’Europa, perché essi costituiscono un anticipo del socialismo, eliminando tante deviazioni e contrasti apparentemente nazionali, ma sostanzialmente capitalistici”. Più tardi, Mussolini sciolse la legislatura assicurandosi un parlamento più addomesticabile attraverso una legge maggioritaria di fatto antidemocratica. Le elezioni del 1924 si svolsero in un clima di terrore: in molte province venne impedita la presentazione di candidati socialisti, uno di essi, il tipografo Piccinini di Reggio Emilia, era stato barbaramente trucidato. Violenze allucinanti: bande armate avevano compiuto un’opera di intimidazione. Matteotti fu rieletto nel collegio Padova-Rovigo e, quindi, rieccolo ancora alla tribuna per rivendicare la dignità di un popolo schiavizzato e conculcato nei più elementari e sacri sentimenti di umanità e di civiltà. Matteotti, con il discorso del 10 maggio del 1924, si votò al suo olocausto. Egli propose che si invalidasse in blocco l’elezione di tutti i deputati del listone fascista e, di conseguenza, della XXVII legislatura. La sua magistrale requisitoria suscitò i furibondi sdegni dei fanatici pretoriani del Duce, che si sentirono anche personalmente accusati quali ispiratori e condottieri delle bande a delinquere fasciste. Matteotti, incurante delle interruzioni, degli insulti, delle minacce che lo investivano, espose fatti, dati, nomi. Al presidente della Camera, che lo invitava a parlare “prudentemente”, egli ribatté con la memorabile frase: “Io chiedo di parlare non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente…”. Fu, probabilmente, un sacrificio cosciente. La frase pronunciata dopo il suo discorso di denuncia dei brogli e delle violenze con cui il fascismo aveva vinto le elezioni del ’24 - “E ora preparate il mio elogio funebre” - non era semplice retorica. Da tempo, Matteotti aveva maturato la convinzione che non bastava più il sacrificio di tanti militanti, che bisognava portare lo scontro più in alto, a livello dei capi, dei dirigenti, che solo sangue eccellente avrebbe potuto risolvere la ‘partita’ a favore della libertà. E, anche in questo, Matteotti fu profeta. Il ritrovamento del suo cadavere e l’arresto dei suoi assassini portò il Governo di Mussolini in una situazione di crisi dalla quale lo salvò soltanto (ancora una volta) la ‘fellonìa’ del monarca, che addirittura gli consentì di chiudere la brutale violenza contro un uomo con una violenza ancora più grande contro tutto il popolo italiano, privato della libertà e condotto all’asservimento fino all’inevitabile catastrofe. “Se si fosse intesa fino in fondo la lezione di Matteotti – chiudeva il suo discorso Bettino Craxi – sarebbero stati evitati, allora, tanti errori e tante illusioni, sopravvissute fino ai giorni nostri: la rivoluzione senza rivoluzione e senza cose da rivoluzionare; il riformismo senza politica, senza principi e senza ideali, il protezionismo comunque inteso, l’interesse particolare disgiunto dall’interesse generale”. I socialisti italiani non vivono di ‘martirologìa’. Tuttavia, il bene prezioso della memoria storica orienta e illumina le coscienze di chi vuole costruire il futuro. Abbiamo di fronte a noi gli straordinari cambiamenti del tempo e la velocità che è propria delle società moderne in cui viviamo, che ci impongono di adattarci a esse con sguardo e pensiero sempre nuovo, sovente diverso. Tuttavia, resta per noi viva, nella coscienza di tutti i sinceri democratici, la convinzione che le conquiste della libertà sono state possibili anche attraverso il prezzo del sacrificio, del coraggio di certi uomini che sentiamo lontani e che ci appaiono, tuttavia, vicini per la freschezza e la lungimiranza del loro pensiero. Attraverso la rilettura di questa Storia riscopriamo che la libertà e la democrazia sono conquiste che si ottengono ogni giorno, che i valori e i principi istituzionali che pensiamo essere garantiti dal nuovo patto Costituzionale diventano fragili se non si erge a loro presidio il richiamo a un dovere del loro rispetto pressoché quotidiano. E nella maturità della coscienza democratica cresce anche la coesione sociale e civile di un popolo che compie i suoi 150 anni di Storia unitaria, ma che resta pur sempre un popolo di una nazione giovane. Onoriamo, per questa ragione, questa mattina, Giacomo Matteotti. E lo facciamo non per ragioni di retorica, ma per il sincero amore che portiamo e continueremo a portare nei confronti dei grandi socialisti e per i grandi italiani. Lo facciamo con il sentimento che ci spinge sempre a legare il nostro passato con il nostro futuro, perché la lezione della Storia della Patria rende meno aspro e meno buio il percorso che ci conduce verso l’avvenire.




Responsabile della Politica Estera del Partito socialista italiano
(Discorso tenuto alla commemorazione ufficiale per gli 87 anni dalla morte di Giacomo Matteotti - Badia Polesine, 12 giugno 2011)

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