Vittorio CraxiA due mesi dall’inizio della crisi nel nord Africa, le cui conseguenze in Egitto e in Tunisia sono quelle di una difficile, fragile ma possibile transizione politica verso una nuova forma costituente e verso sistemi più democratici, e a due settimane dall’inizio dei tumulti in Cirenaica, è chiaro che la Comunità internazionale sta brancolando nel buio. La forza e la determinazione con la quale il colonnello Gheddafi ha cercato di reprimere e di respingere la scissione del Paese che ha guidato per più di quarant’anni ha spinto tutta la Comunità internazionale a condannarlo e a isolarlo politicamente per cercare di sottrargli le risorse per poter andare avanti, ma è chiaro ed evidente che, fino a questo momento, l’unico vero esito di tale condotta è la drammaticità dell’esodo dei profughi, in maggioranza di provenienza maghrebina, che si sta scaricando sulla già precaria situazione del vicino Stato tunisino, le cui frontiere stanno collassando. Che gli eventi si siano presentati in modo talmente rapido da non poter essere gestiti e governati come sarebbe stato possibile e necessario, dimostra che la buona dottrina e pratica della democratizzazione dei popoli è, in teoria, la soluzione e l’aspirazione dell’avvenire, ma che essa non possa essere ottenuta soltanto declamandone i principi in forme astratte. La condizione ibrida in cui ha vissuto la Libia di Gheddafi al cospetto della Comunità internazionale, il reprobo scacciato prima e riammesso più tardi nei consessi più prestigiosi, rende assai difficile, stretta e impervia la strada che s’intenderebbe percorrere, ovverossia un intervento militare richiamato per ragioni umanitarie ma che, di fatto, risponderebbe oggi a un’esigenza globalmente sentita, cioè quella di un cambio di regime che, nel caso non avvenisse per mano endogena, dovrebbe essere eterodiretta politicamente dall’esterno o, addirittura, accompagnata da un intervento diretto. Quest’ultimo mostrerebbe tutti i suoi limiti di legittimità: nessuna delle cosiddette forze in campo è, per il diritto internazionale, riconosciuta come soggetto politico, di fatto il colonnello Gheddafi non reprime minoranze etniche o popoli diversi da quello libico, ma fa ricorso, come è accaduto da quarant’anni a questa parte, per ragioni di sicurezza, alle ragioni della forza anziché il suo contrario per dirimere le controversie interne al proprio popolo. Se possibile, sul piano internazionale la vicenda libica si presenta ancora più complessa di quanto non siano state le crisi in Kosovo (dove esisteva un movimento indipendentista ), in Irak (dove la Comunità internazionale ha dichiarato guerra al dittatore Saddam perché, si sosteneva, rappresentava una minaccia con le sue armi chimiche). Più simile appare il ricorso all’analogia con la Somalia (un’altra ex colonia italiana) dove tuttavia si è registrato uno dei più enormi fallimenti della Comunità internazionale (il Paese vive in uno stato di incertezza da più di vent’anni) in particolare, per dirla tutta, quello dell’amministrazione Usa, che conobbe lo smacco di un poco onorevole ritiro dal terreno. Tutti sono concordi nel ritenere che il colonnello Gheddafi non sia più politicamente idoneo. Addirittura ‘brutale’ è stato il pensiero del Governo russo, uno dei difensori storici della Rivoluzione verde del colonnello: “E’ politicamente morto”. Ma il caro estinto è vivo e vegeto, controlla la capitale e un certo numero di pozzi petroliferi, ha ingaggiato non una battaglia solitaria ma alla testa e al fianco di una parte del popolo che continua a considerarlo una guida carismatica, non essendo affiorata all’orizzonte la benché minima figura di un leader alternativo, di un’opzione politica e statuale alternativa, se non la sola volontà (legittima e plausibile) di metter fine a una lunga autocrazia. E’ stata una settimana di empasse e di incertezza. All’Italia, trovatasi nella peggiore delle situazioni immaginabili (considerata collusa dai rivoltosi e traditrice dall’uomo di Stato che non più tardi di cinque mesi fa abbiamo accolto a Roma come un amico con il quale avremmo voluto condividere un nuovo pezzo di strada - magari costruita da noi - assieme) viene chiesto lo sforzo più immane: un impegno straordinario sul piano umanitario per fermare alle frontiere del Maghreb i fuoriusciti, di cancellare ogni traccia di amicizia con il Presidente non ancora deposto, di stracciare il trattato ai fini dell’utilizzo delle nostre basi militari per consentire di bombardarlo. L’Italia, naturalmente, si prepara a mettersi al servizio di questa clamorosa ‘giravolta’, ma non è affatto detto che, alla fine della giostra, il nostro prestigio internazionale sarà accresciuto e l’amicizia del futuro gruppo dirigente libico salda e concreta.




Responsabile politica estera del Partito socialista italiano
(articolo tratto dal blog www.socialist.it)

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